Macao meravigliao

Antonio Talia
I risultati economici di città cinesi semisconosciute come Kunming o Fuzhou si spiegano attraverso investimenti in oleodotti o ricavi dell’elettronica, in cima al podio delle città più ricche rimane per il secondo anno consecutivo una città che non produce niente, non esporta niente e conta poco più di seicentomila abitanti: Macao. Il vertice dell’economia globale dello scorso anno è rappresentato da una minuscola penisola affacciata sul mar Cinese meridionale, fondata interamente sul gioco d’azzardo.

La prima chiave di lettura arriva da Hollywood. Martin Scorsese ha girato un nuovo kolossal che vede per la prima volta insieme Robert De Niro, Leonardo di Caprio e Brad Pitt. Costato – si dice – 70 milioni di dollari, il film non è una nuova gangster story, e anche se l’uscita è prevista per la seconda metà di quest'anno non lo vedremo nei cinema: è uno spot-mediometraggio per il lancio del nuovo mega casinò Studio City Resort che aprirà a Macao entro la fine dell’anno (il trailer di "The Audition", intanto, è circolato molto qualche tempo fa, e ora è stato dal web).

 

Il secondo segnale arriva da Wall Street e dintorni: l’ultima edizione del rapporto congiunto McKinsey/Brookings “Global Metro Monitor” sulle metropoli con le migliori performance di crescita mostra anche nella sua edizione del 2014 che da anni le città asiatiche sono quelle che crescono di più. Ma se i risultati economici di città cinesi semisconosciute come Kunming o Fuzhou si spiegano attraverso investimenti in oleodotti o ricavi dell’elettronica – ancora enormi, nonostante i recenti acciacchi economici di Pechino – in cima al podio rimane per il secondo anno consecutivo una città che non produce niente, non esporta niente e conta poco più di seicentomila abitanti: Macao.

 

Il vertice dell’economia globale dell’anno 2014 è rappresentato da una minuscola penisola affacciata sul mar Cinese meridionale, fondata interamente sul gioco d’azzardo.

 

A Macao si arriva attraverso il confine con la provincia cinese del Guangdong, atterrando all’aeroporto dell’isoletta di Taipa, oppure dopo un’ora di traghetto da Hong Kong. Alla dogana i poliziotti reagiscono sempre con qualche secondo di ritardo rispetto ai cugini della Hong Kong Police Force, ma sorridono molto di più: sanno che il timbro in doppia lingua cinese-portoghese appena stampato sul tuo passaporto equivale a un lasciapassare per qualche giorno di bagordi nella capitale del gioco che da sola ormai vale quanto sette Las Vegas, e sanno che in una decina d’anni il loro stipendio è triplicato soprattutto grazie al denaro che perderai in uno dei 35 casinò di Cotai Strip e dintorni. Le cronache delle ultime retate della sezione disciplinare raccontano anche che molti tra loro arrotondano il salario con attività extralegali, ma su questo come su altri aspetti di Macao non esistono statistiche certe. Dagli edifici in stile mediterraneo di Plaça do Senado alle pacchianerie del casinò Venetian Sands coi suoi gondolieri filippini, fino agli squallidi palazzoni anni ’60 di Avenida de Oceano, lungo le strade di Macao si è depositata la storia lunga secoli di un’enclave coloniale a cavallo tra Cina, Europa e sud-est asiatico. E nelle enclave, da sempre, convergono tipi umani più veloci o più disinvolti a cogliere opportunità proibite altrove, le regole si fanno più lasche, proliferano i traffici, i contorni delle cose sfumano in una nuvola di sottintesi noti solo a chi le frequenta.

 

Attorno al 1650 Macao è già uno snodo portoghese per la cattura e il commercio di schiavi da indirizzare verso l’isola di Timor, ma quando nella seconda metà del 1800 Lisbona riduce questo traffico il governatore Isidoro Francisco Guimarães è pronto a introdurre nella città di mare un nuovo business: le case da gioco. Avanti veloce fino al 1999: il Portogallo restituisce alla Cina Macao, ormai ultima colonia europea rimasta in Asia, ma Pechino le concede uno status di territorio speciale simile a quello applicato due anni prima, quando l’amministrazione di Sua Maestà britannica ha lasciato Hong Kong. Macao ha un suo governo semi-indipendente, una parvenza di multipartitismo e libere elezioni e soprattutto una sua moneta, la pataca, che nonostante il nome da battuta di terz’ordine costituisce un ingrediente fondamentale del successo locale insieme ai casinò e alla semi-extraterritorialità.

 

Le spregiudicatezze praticate nei porti franchi rappresentano l’angolo occulto più affascinante della storia economica, ma mentre le fortune generate in tempi antichi da Amburgo, Livorno, Vladivostok e Ancona sono decadute o metabolizzate in sistemi più leciti, luoghi come Malta e Goa sono ancora lì a giocare il ruolo di valvola di sfogo per gli aspetti più discutibili delle ricchezze globali.  Grattando dietro la superficie di Hong Kong emergeranno operazioni finanziarie spericolate, le rispettabili società di Singapore nascondono attività illegali come il calcioscommesse, e tutti questi luoghi incarnano ormai l’aggiornamento del porto franco settecentesco all’epoca dell’economia 2.0. Però solo una città spudorata come Macao può permettersi di abbattere le ipocrisie e ostentare la sua natura più cruda: lo snodo privilegiato dell’economia sommersa dell’estremo oriente e del sud-est asiatico, un incrocio di capitali di provenienza incerta e sprazzi di affari loschi, da chiudere con discrezione dietro i separé dei club e dei casinò dove nessuno chiede e nessuno spiega.

 

Il rapporto pubblicato nel 2013 dall’Organizzazione Mondiale per il Turismo delle Nazioni Unite mostra che in quell’anno i visitatori hanno speso a Macao 51,7 miliardi di dollari, una somma che piazza l’ex colonia portoghese al quinto posto nella classifica globale. Due pesi massimi come Italia e Regno Unito, per intenderci, hanno ottenuto rispettivamente 43,9 e 40,6 miliardi, e lo scorso anno nonostante la stretta operata dal governo cinese e un abbassamento degli afflussi i casinò di Macao hanno incassato 44,1 miliardi di dollari, un calo del 2,6 per cento meno drammatico del previsto che costituisce anche il primo segno negativo in oltre un decennio. Circa il 70 per cento dei visitatori che arrivano a Macao sono cittadini cinesi e la puntata minima standard supera i 100 dollari: il turista medio, insomma, è un cinese con molti soldi da spendere, determinato a rimanere al tavolo da gioco fino alle ore piccole o anche per giorni interi. Il 70 per cento delle vertiginose entrate dei casinò di Macao però non arriva dagli sterminati saloni tutti slot-machine e tavoli da baccarat. Qui è dove comitive di impiegati asiatici dalla palpebra calante, magari sbarcati con l’ultimo viaggio premio-produttività, si alternano ai polli occidentali preda favorita delle prostitute. Il vero miliardario cinese alla ricerca di piaceri imperiali accetterà di mettere piede solo in una sala vip. E per farlo, dovrà rivolgersi a un junket.

 

I junket sono società di operatori specializzati perfettamente legali che selezionano la clientela delle Sale vip, forniscono ogni servizio – dal visto all’alloggio a sei stelle – e soprattutto aprono al turista-giocatore una linea di credito che, a seconda del prestigio dell’ospite, può anche diventare illimitata. I livelli di lusso offerti dai junket più sontuosi superano l’immaginazione dei comuni mortali, così come le somme che queste agenzie maneggiano ogni giorno, ma dal 2013 la spietata campagna anticorruzione lanciata dal presidente cinese Xi Jinping sta colpendo al cuore anche loro: all’inizio del dicembre scorso la polizia di Hong Kong ha congelato i beni di Cheung Chi Tai, un hongkonghese che almeno fino al 2007 controllava il 12,8 per cento della Neptune Guangdong Group, il più importante operatore junket di Macao. Oggi l’amministratore delegato della Neptune è Nicholas Niglio, un italoamericano veterano dell’industria del gioco di Atlantic City, e la società si è affrettata a dichiarare ai media che i legami con Cheung sono chiusi da anni, ma già nel 1992 un rapporto della commissione del Senato americano sul crimine organizzato asiatico lo identificava come il leader della pericolosa triade Wo Hop To. Gli atti del processo aperto a Hong Kong sul tentato omicidio di un croupier del Sands Macao avvenuto nel 2012 indicano Cheung Chi Tai come il mandante. Ora gli investigatori di Hong Kong accusano Cheung di riciclaggio di denaro, un’attività che costituisce l’altra faccia del business dei junket di Macao.

Immaginate di essere un funzionario corrotto di livello medio-alto del Partito comunista cinese. Avete guadagnato una fortuna grazie agli amici imprenditori a cui concedevate le licenze di sfruttamento di terreni o miniere o altri spazi pubblici. In questa fase della vostra carriera, che potrebbe concludersi con una promozione nei ranghi del Partito o con la pena di morte, avete un grosso problema: dovete nascondere il patrimonio e magari metterlo al sicuro su qualche conto all’estero in caso di fuga, ma le norme di Pechino vi impediscono di spostare più di 50 mila dollari in territorio straniero, denaro del quale siete comunque obbligati a giustificare la provenienza. Che cosa fate? Vi rivolgete alla filiale cinese di un junket, che in cambio di una percentuale e della discrezione più assoluta vi offrirà la poltrona d’onore in una sala vip. Dopo una nottata magica uscirete dal club matematicamente vincenti con la somma prenotata già convertita in dollari di Hong Kong o in patacas, quindi irrintracciabile e pronta per il versamento su un conto di Macao o di Hong Kong, dal quale potrete spostarla ovunque. Moltiplicando questo processo per una moltitudine di funzionari e uomini d’affari cinesi i prodigi economici di Macao appaiono molto più plausibili, ma le possibilità offerte da un paradiso del gioco d’azzardo situato al centro dell’area economica più tumultuosa del pianeta sono illimitate: tra i beneficiari delle spudoratezze di Macao, ad esempio, c’è anche il regime nordcoreano.

 

Kim Jong- nam, fratello maggiore del Supremo leader Kim Jong-un, viveva in città ed era una figura molto popolare nelle sale vip più esclusive almeno fino al 2012, quando un presunto complotto per ucciderlo ordito dal fratello lo ha convinto a trasferirsi a Singapore. Nel febbraio del 2006 i funzionari del Tesoro americano riescono a congelare un conto bancario da 25 milioni di dollari aperto dalla società nordcoreana Jokwang Trading, che secondo Washington serviva a riciclare i proventi di numerose attività illecite di Pyongyang tra cui il ricavato delle famigerate “supernotes”; false banconote da 100 dollari prodotte in Corea del Nord e talmente perfette da ingannare gli americani per anni. Lo stesso Kim Jong-un, almeno secondo i giornali ultranazionalisti di Tokyo, potrebbe nascondere qualche interesse nel business del gioco di Macao: la Corea del Nord controllerebbe le quote di alcune società che investono nei pachinko, i flipper-slot machine amati dai giapponesi, comparsi da alcuni anni anche a Macao. “Ma questo legame non è stato ancora analizzato in profondità – spiega al Foglio il professor Hyung Gu Lynn, docente di Studi Coreani all’Università della British Columbia. “Ritengo che sia più corretto dire che i capitali dal Giappone venivano inviati con regolarità in Corea del Nord negli anni ’90, ma sono significativamente diminuiti negli anni 2000 dopo le sanzioni economiche applicate da Tokyo a Pyongyang nel 2002”.

 

Pyongyang o no, tra leader cinesi in fuga e almeno tre omicidi irrisolti di personaggi legati ai junket commessi solo negli ultimi due anni, Macao offre spunti continui che Martin Scorsese potrebbe tradurre in un film o in una serie televisiva internazionale giocata tra l’Asia, gli Stati Uniti e magari anche l’Italia. Come la storia del campione mondiale di poker e uomo d’affari Paul Phua, alias Phua Wei Seng, che nel luglio dello scorso anno viene fermato a Macao per reati imprecisati legati al mondo del gioco d’azzardo: Phua lascia misteriosamente l’Asia – secondo le autorità statunitensi grazie a una mazzetta da 600 mila dollari versata ai poliziotti di Macao – e ricompare dopo qualche giorno a Las Vegas, dove la polizia americana lo arresta in una suite del Caesars Palace insieme ad altri 20 asiatici con i quali aveva messo in piedi un giro multimilionario di scommesse illegali sui Mondiali in Brasile del 2014. Nel computer di Phua, definito dai rapporti riservati FBI “un membro di alto livello della triade 14K”, gli investigatori trovano anche una copia del passaporto del re dei junket Cheung Chi Tai, bloccato a Hong Kong dopo pochi mesi. Ma il campionissimo di poker prova a giocare un’ultima carta, e come racconta il quotidiano South China Morning Post esibisce un autentico passaporto diplomatico rilasciato nel 2011 dalla Repubblica di San Marino, che lo accredita come ambasciatore del Titano in Montenegro. Sfortunatamente per lui non può più godere dell’immunità perché le autorità sammarinesi hanno ritirato il passaporto dopo l’arresto. Rimane solo da capire come un cittadino malese di etnia cinese con precedenti nel mondo delle scommesse clandestine risalenti al 2004 sia stato nominato ambasciatore. Che ne pensi Martin? Sembra una trama molto più avvincente di quella dello spot per il casinò di Macao: De Niro e Di Caprio faranno a gara per assicurarsi la parte del boss sammarinese.

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