Joni Mitchell

Le età della musica

Stefano Pistolini

Piccola enciclopedia di voci femminili sospese tra nostalgia, remake, omaggio e rievocazione. “I libri che hanno scritto su di me sono immondizia, pieni di sbagli, pettegolezzi e insinuazioni”, dice Joni Mitchell. “Lasciatemi essere me stessa! Non fatemi sentire vecchia coi vostri ragionamenti su come avrei dovuto essere”, dice Yoko Ono.

Parliamo di donne, indispensabili protagoniste della scena musicale di oggi. E’ la settimana giusta, no, a due passi dalla loro festa? Partiamo per esempio da Kim Gordon, ex bassista e fondatrice dei Sonic Youth. Ha appena mandato in libreria “Girl in a Band”, un memoir destinato a fare rumore. La storia è nota: la celebre indie band newyorchese è nata e prosperata sul sodalizio artistico e sentimentale tra Kim e suo marito Thurston Moore, il frontman del gruppo. Il successo è stato enorme, la produzione ragguardevole, con numerosi momenti d’oro, all’insegna di quel suono puro, intransigente e rappresentativo degli ideali di libertà estetica che non smettono di piacere ai più giovani.

 

Sonic Youth, “Kool Thing”

 

 

Poi gli anni sono passati e la perfetta unione ha cominciato a scricchiolare, sempre più forte, prima dentro le mura domestiche e poi anche sui palchi di mezzo mondo. Tradimenti, un’altra donna, noia, obiettivi esistenziali che non coincidevano più. Alla fine è arrivata la frattura, violenta, insanabile, che ha travolto la band, provocando la sua fine. A freddo, un paio d’anni più tardi, Kim torna sul luogo del delitto. Dopo tante voci infondate di reunion, dei Sonic Youth non c’è più traccia e ciascuno ha preso la sua strada. Moore, ad esempio, ha avviato una produzione solistica di buon livello, con una sua band che si sta consolidando.

 

Thurston Moore, “Speak to the Wild”

 

 

Altrettanto ha fatto Lee Ranaldo, l’altro chitarrista della band, anche lui ripartito con una carriera a proprio nome, senza pretese di grandeur, ma ben accolta nel circuito dei piccoli rock club.

 

Lee Ranaldo & the Dust “Ambulancer”

 

 

Kim, l’intellettuale del gruppo, ha imboccato un’altra strada. Dal punto di vista musicale, ha prodotto qualcosa di lontanissimo da quella che per lei era divenuta la routine dei Sonic Youth. Insieme allo stravagante performer Bill Nace ha creato il duo Body/Heat, di art-rock estremo. Una roba da poseur, buona per gli happening nelle gallerie chic del Village.  

 

Body/Heat “Last Mistress”

 

 

 

Ma soprattutto si è dedicata a questo libro, nel quale ripercorre la storia dei Sonic Youth visti da una ragazza arrivata in città per vivere l’esperienza della bohème (e accontentata dagli eventi). Ci sono le atmosfere di Manhattan quando ancora era un posto libero, pericoloso e un po’ selvaggio e, raccontata con sensibilità femminile e con la spietata malizia dell’“a posteriori”, c’è la parabola della band e il suo inestricabile intrecciarsi con la storia d’amore tra lei e Thurston. C’è tanto spirito di rivincita, tanto rancore irrisolto e tanti outing femministi in colpevole ritardo. C’è anche la straziante cronaca dell’ultimo concerto della band, quando da settimane Kim e Thurston vivono da separati in casa, si guatano con odio e non si rivolgono più la parola. Date un’occhiata se non temete di commuovervi: “Di solito, quando suono dal vivo, mi preoccupo se il volume del mio amplificatore è troppo alto o se qualcuno nella band è di cattivo umore. Quella settimana me ne fregavo, facevo quel che mi pareva ed era tutto doloroso e sconnesso. Doloroso perché la fine del mio matrimonio era una questione privata e guardare Thurston esibire la sua nuova indipendenza di fronte alle platee era come mettere della sabbia in una ferita aperta. Mentre ci spostavamo da una città all’altra la mia disponibilità evaporava, sostituita dalla rabbia. L’ultimo concerto, a San Paolo del Brasile, lo chiudemmo con ‘Teen Age Riot’ dall’album ‘Daydream Nation’. Io cantai, o provai a cantare i primi versi: ‘Spirito desiderio / guardami / spirito desiderio / cadremo / ti mancherà / non liberarti di me’. Nel backstage nessuno disse una parola sul fatto che avevamo appena finito l’ultimo concerto. Non si parlò di niente. Ormai vivevamo tutti in città e aree del paese diverse. Era troppo triste e io avevo paura di piangere mentre dicevo addio a ciascuno di loro, anche se piangere era proprio ciò che volevo fare. Poi ognuno se ne andò per i fatti suoi. E anch’io montai su un aereo che mi riportò a casa”.

 


 

Sul settimanale americano New York magazine, a metà febbraio è uscita una copertina memorabile. La meravigliosa signora dei canyon, Joni Mitchell, 71 primavere portate con dignità, fatica e stile (71 come il magico 1971 in cui in Italia ci accorgemmo di lei, quando in “Blue” cantava “potrei bere una cassa intera di te, amore / e continuare a star dritta sulle gambe”) s’è prestata a fare da cover girl al numero dedicato alla fashion week della Grande Mela, come testimonial di Saint Laurent, voluta da Hedi Slimane, il designer franco-tunisino direttore creativo del marchio.

 

(Un’occhiata alle foto datela, per la loro unicità e la loro bellezza strana).

 

Joni, nell’occasione, ha concesso un’intervista preziosa per la franchezza con cui ha parlato su tutto e tutti, senza tralasciare la sua attuale preoccupazione: promuovere l’autoritratto musicale che ha appena pubblicato, “Love Has Many Faces: A Quartet, a Ballet, Waiting to Be Danced”, cofanetto antologico quadruplo con 53 canzoni e quattro ore di musica, che in copertina ha un suo autoritratto e raccoglie la personale summa del suo percorso musicale, dando spazio soprattutto agli esperimenti jazzistici e classicheggianti della seconda fase della carriera e lasciando un po’ indietro gli indimenticabili motivi di romanticismo cantautorale che la resero icona – al tempo stesso – del femminismo e della femminilità. Tra l’altro, le note incluse nel libretto rappresentano il suo primo e unico racconto autobiografico (“I libri che hanno scritto su di me sono immondizia, pieni di sbagli, pettegolezzi e insinuazioni”), che le è costato la fatica di un’intera estate (“Mi ricordo troppe cose”), scrivendo tutto a mano (“Ho provato un programma di dettatura su computer: non mi capiva”). L’intervista è una miniera di notizie, alcune tristi (Joni è malata di una misteriosa malattia della pelle, la sindrome di Morgellons) e altre divertenti. Come quando rievoca i commenti che le dedicavano i vecchi colleghi musicisti: David Crosby la definiva “un tipo umile, più o meno quanto Mussolini”, Dylan che sosteneva che fosse “una specie di uomo”, o Leonard Cohen che la rimproverava di vestirsi come una debuttante. Orgogliosa, superba e sola nella sua villa di Bel Air, Joni consuma il viale del tramonto lamentandosi della pochezza degli apprezzamenti che le vengono rivolti e di quanto la irriti chi le rinfaccia l’abbandono del suo originale filone di canzoni “da appartamento” (“Qualcuno rimprovererebbe Tennessee Williams di non essere rimasto un autore da appartamento?”). Pare che la sua vita adesso diventerà un film e che la parte dei suoi celebri zigomi sia appannaggio di Taylor Swift, nuova regina del country-pop d’oltreoceano. Joni finge noncuranza: “Non conosco la sua musica. Ma l’ho vista e fisicamente ci siamo. Capisco la scelta. Ma se dovrà cantare non posso che dirle: buona fortuna!”. Perfida Joni.

 

Joni Mitchell “A Case of You”

 


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Visto che stiamo scalando l’anagrafe (Kim 62, Joni 71) mettiamoci altri 11 anni e arriviamo agli 82 di Yoko Ono (non preoccupatevi: poi riscendiamo), che non smette mai di restare attivissima, in campo artistico e anche musicale. Adesso presenta una nuova incisione del suo inno ecologista “I Love You Earth”, pubblicato originariamente nel 1985 su “Starpeace” e in questa versione cantato in duetto con Antony Hegarty di Antony and the Johnsons, con la collaborazione musicale di John Zorn. Yoko e Antony s’erano già incontrati in occasione del benefit per il disastro nucleare in Giappone e avevano eseguito da vivo proprio questa canzone. Eccoli al Poisson Rouge di NYC:

 

Yoko Ono e Antony Hegarty: “I Love You Earth”

 

 

 

Peraltro, approfittando della sua venerabile età, Yoko adesso provvede anche a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Per esempio, tornando a occuparsi di quel vero ostracismo di cui fu oggetto negli ormai lontanissimi anni dei Beatles, quando non solo i fans, ma anche autorevoli critici si scagliarono contro di lei, colpevole di aver corrotto il genio di Lennon e il suo rapporto coi compari, coinvolgendolo nelle sue insulse produzioni musicali. Sul suo sito Imaginepeace, l’inossidabile Yoko si prende la rivincità. La lettera ai suoi detrattori s’intitola: “Non fermatemi!” e ricostruisce tutta la negatività che s’è vista rovesciare addosso: “La mia voce a quel punto era morta. Ero troppo preoccupata da quegli attacchi. Ma eravate voi a dover andare a un concerto di musica classica, se quel che cercavate era una voce ben educata”, scrive Yoko rivendicando le sue sperimentazioni vocali, spesso non facili da digerire per chi magari, andava in cerca di scampoli del Johnny Boy di un tempo. Perché diavolo i critici non se la sono presa con Iggy Pop, per come cantava, scrive Yoko? “Lasciatemi libera, lasciatemi essere me stessa! Non fatemi sentire vecchia coi vostri ragionamenti su come avrei dovuto essere. Non venite ai miei spettacoli. Io metto un’energia tremenda nella mia voce, perché così mi realizzo. O fate i conti con la mia energia, o tacete!”. Meraviglioso. Tra l’altro, conoscendola, queste parole lasciano presupporre un suo nuovo exploit musicale sotto forma di album, nel sempre più florido scenario del geriatric pop. Speriamo che Antony resti nei dintorni. “Se continuate a criticarmi perché sono vecchia, io soccomberò e diventerò vecchia. Mi tappo le orecchie per non ascoltarvi! Danzare in una società dell’invecchiamento è un’esperienza malinconica. Non lapidatemi! Amatemi per quel che sono!”. Viva Yoko.

 


 

Ok. Spazio alle nuove generazioni. Natalie Prass: personaggio nuovissimo e ragguardevole. Titolare del miglior album del momento, in compagnia di quelli di Father John Misty e Sufjan Stevens. Una storia particolare. 28 anni, da Cleveland, adesso Natalie ha messo saggiamente radici a Nashville, per dare prospettive alla sua caramellosa, irresistibile ugola country-soul. Viene notata da Matthew E. White, il talentuoso produttore di Richmond, Virginia, uno che ha il tocco per diventare il Rick Rubin degli anni Dieci. Quando corre il 2012, Matthew le fa incidere per la sua nascente etichetta Spacebomb, l’album che porta il suo nome: un capolavoro di misura, gusto, perizia nella confezione, coi fiati Muscle Shoals, una sezioni d’archi come dio comanda, canzoni misurate e un certo gusto disneyano che traversa il tutto. Nel mentre il disco è pronto a uscire, Matthew W. White pubblica anche “Big Inner”, album a suo nome, una specie di manifesto musicale nel quale declina e presenta la sua musicalità. Contro ogni pronostico (lui mica ha il physique du rôle della bella Natalie: è sovrappeso, barbuto, con l’aria della talpa da studio di registrazione) “The Big Inner” diventa un successo e tutta la sua squadra deve dedicarsi a tempo pieno alla promozione, ai concerti e al resto.

 

Matthew E. White “Rock & Roll Is Cold”

 

 

 

La Prass viene mandata a svernare come corista nella band di Jenny Lewis, in attesa che si svuoti la waiting list. Adesso, finalmente, ci siamo: il disco esce e il passaparola fa il resto. E’ una gemma di una musicalità sognante, con una voce nella quale non ci si stanca di crogiolarsi, arrangiamenti con una ricchezza e delle architetture che di questi tempi è raro incontrare. Per la vocalità di Natalie qualcuno ha scomodato Dionne Warwick, ma a noi sembra più vicino a certe sonorità californiane anni Settanta, nei dintorni del clan Bacharach, dell’indimenticabile Karen Carpenter e dei musical a cartoni animati con le principesse, i rospi e gli uccelli canterini.

 

 

Karen Carpenter “Rainy Days and Mondays”


 

Natalie Prass è diventato il nome sulla bocca di tutti. Difficile che un esordio possa essere più convincente di così. E, oltre a questa voce intinta nel miele e a questa confezione lussureggiante, Natalie ha anche la faccia giusta, graziosa e pulita. Piacerà a due o tre generazioni di americani: garantito. E quando sarà il momento di venirci a far visita, sarà già diventata una stella.

 

Natalie Prass “Bird of Prey”

 

 

***

Infine due note femminili di casa nostra. Lei si chiama China, dalla Liguria si è trasferita a Roma e ha una doppia vita: attrice cinematografica e cantante degli Wow, quartetto che debutta per la stimabile 42 Records, la stessa dei Cani e di Colapesce. Con lei tre ragazzi, due francesi e un romano e un’autodescrizione che suona così: “Una macchina del tempo verso la Sanremo degli anni Sessanta. Come se al Casinò avessero deciso di sostituire l’orchestra con una band garage punk. Gli Wow fanno questa cosa, non facilissima da spiegare: canzone italiana classica, suonata da una band che di classico e italiano non ha niente”.

 

Wow “Il Vento”

 

 

“Il vento” è un videoclip grazioso e stilé. Il disco, che si chiama “Amore”, ha le sonorità di Trovajoli, Morricone, Costanzo, ma anche di Nada e Dalida e dei… Baustelle. Anzi, ascoltando “Marie”, l’esordio solistico di Rachele Bastreghi, voce femminile appunto dei Baustelle, non si può non notare le somiglianze stilistiche tra le voci di China e di Rachele.

 

Rachele Bastreghi “Il Ritorno”

 

 

Spunta un’ipotesi: tra queste ragazze c’è in circolo una nostalgia per gli anni caldi a cavallo tra Sessanta e Settanta – si direbbe prima di tutto estetica, ma anche verso certi atteggiamenti legati ai formidabili slanci liberatori dell’epoca. Altrimenti da dove viene tutto quel bianco e nero dei video di Rachele e di China? Certo, erano altri tempi, difficili, ma più intensi e struggenti. Quando una donna che cantava fuori dagli schemi, sollevava stupore, riprovazione, ma anche tanto interesse, in particolare tra le coetanee. Ci si preparava alla conquista di un mondo musicale ancora settario e maschilista. Piccole Joni, Yoko e Kim crescevano e affilavano le ugole. Rachele e China oggi cantano in quel solco. Sospese tra nostalgia, remake, omaggio e rievocazione. Lo fanno così bene che, a loro volta, producono un nuovo, elegante gesto d’arte.

 

Manciate di consigli non richiesti su canzoni da ascoltare, vedere e imparare a memoria. Direttamente dal desktop di Pistolini.

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