La cantante Bjork (foto LaPresse)

Peggio di Bjork al MoMa è il MoMa che non sa ospitare un café-concert

Francesco Stocchi
Se la mostra della cantante islandese nel tempio dell’arte contemporanea è bruttina non è solo colpa sua. Populismi estetici nell’industria dell’arte moderna.

Sembra proprio un nightclub di Ibiza!”. Se questo commento non viene da un hipster di Brooklyn, opinionista dell’ordinario democratico cool, ma da un membro dei potenti trustee del MoMA, finanziatori del più influente museo del mondo (7 milioni di dollari la rata media per far parte dell’élite delle élite), un qualche problema ci dovrà pur essere.

 

Malgrado le apparenze e la sua innata vocazione a cambiare le regole, il mondo dell’arte, che dell’Arte contemporanea si fa portavoce, è luogo fondamentalmente conservatore. Vige il politicamente corretto che impone un’interpretazione della realtà – la pigra opinione unica e monolitica – e la facile propensione alla divinazione: una sorta di applicazione del pensiero dominante che nella rete trova il suo santuario. Essendo le scelte fondamentalmente legate al gusto o al credo, guai a dire male, correnti d’aria potrebbero imperversare negli incestuosi labirinti dove ci si incontra e dove si possono decidere, a breve termine, le sorti degli artisti. Al massimo, se qualche cosa proprio non deve piacere, capita di udire “interesting”, ma pronunciato con tono molto british, sennò il messaggio non arriva. Non c’è da stupirsi se le recensioni si sono trasformate di fatto in promozionali, e se ci fosse qualche critica da voler esprimere: “Con tutto il bello che c’è in giro, perché occuparsi di ciò che non va?”, sentii dire da un redattore. Quindi è sorprendente leggere le numerose stroncature della mostra retrospettiva di Bjork al MoMA. Il tempio del modernismo che accoglie la regina del post-moderno posh-freak? Cosa c’è di più inattaccabile? E invece: giudizi sprezzanti, derisioni, richieste di dimissioni per il curatore Klaus Bisenbach, amante e amato dalle celebrità. Comunque in una sola direzione, tutti uniti, tutti contro, tutti d’accordo. E’ meno originale ma molto più sicuro, tanto che viene da simpatizzare, o per lo meno, da insospettirsi.

 

Ciò che non è in discussione è il genio della figura di Bjork, artista dotata di un’inusuale forza creativa. Musicista visionaria, attrice, ballerina, compositrice, capace di sviluppare uno stile proprio, figlio legittimo della musica d’avanguardia di Stockhausen, Glass, Mong mescolata alla quella popolare e di nicchia. Per senso di profondità, di continuità storica e per quella capacità di sintetizzare la sua urgenza espressiva, ascoltare un brano di Bjork può equivalere al contemplare un grande dipinto. Osservare una tela di Rothko e perdersi. Tutte le figure artistiche con cui Bjork ha collaborato si sono spinte al limite, stimolate da uno sguardo diverso, quello della terra d’Islanda che unisce il dramma del vulcano al mondo invisibile dei folletti. Bjork, artista degli artisti e meritevole di inscenare la sua creatività. Il problema sta invece nel ruolo del museo e nel rapporto che l’industria dell’arte ha oggi con la cultura dell’intrattenimento.

 

Il MoMA ha sempre collezionato in modo attento, non pregiudiziale, sforzando uno sguardo d’ampie vedute. Non solo dipinti e sculture quindi, ma design, fotografia, architettura, moda, videogame, cercando di ridurre il divario tra “high and low art”, ragionando su come nuove tipologie di opere e di artisti potessero abitare il suo programma. Ma ciò che veniva inteso come propensione all’accessibilità – o rottura di barriere semantiche dell’arte – si è trasformato in banalizzazione di un messaggio che rischia di sembrare un inchino populista. Assoggettamento al gusto comune. Se l’arte crea dibattito e riesce a stimolare sempre un maggior numero di visitatori, non significa certo che non sia seria o di bassa qualità. Ma ti metto nelle condizioni di farmi spiegare, o banalizzo il messaggio affinché, tu, povero visitatore occasionale, possa capirmi? Invece di indicare una direzione, si segue una tendenza, si coinvolgono personaggi pubblici, sollevando il problema del controllo: quando la popolarità di certi “artisti” sorpassa il loro talento, è il museo a gestire o a essere gestito? Negli ultimi anni abbiamo assistito, nel museo con la più grande collezione di arte moderna nel mondo, alla retrospettiva di Tim Burton: otto concerti-mostra per otto giorni consecutivi. I Kraftwerk, ma anche Tilda Swinton vi ha trovato posto, improvvisandosi la bella addormentata nel bosco sotto teca di plèxiglas, attraendo file e telefonini puntati (brutta copia della performance radicale di Chris Burden nel 1972). Il cross-over arte-spettacolo-pubblicità si completa con la Regina Marina (Abramovich), fu artista di protesta, ora protesa a necessità auto-celebrative. In attesa di Yoko Ono prima dell’estate.

 

[**Video_box_2**]Per accedere al MoMA si spendono 25 dollari, più o meno lo stesso prezzo chiesto per visitare l’Empire State Building o la Statua della Libertà, destinazioni nel piano base dei turisti. Nonostante l’ex presidente del board, Agnes Gund, abbia annunciato al New York Times lo scorso aprile che “ci sono un certo numero di noi che non vogliono vedere il museo diventare un mero centro di intrattenimento”, il MoMA ha insisto su scelte volte a assecondare il pubblico, più che a guidarlo. Assistevo la settimana scorsa a un incontro presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna con Philippe De Montebello, storico direttore per oltre 35 anni del Metropolitan Museum a New York, che lamentava l’evolversi dell’identità del museo negli ultimi anni. In una ricerca condotta dalla Tate di Londra, il museo d’arte contemporanea più visitato al mondo, sul perché visitare un museo, la prima risposta è stata “per passare del tempo”. Il museo come luogo d’incontro, come esperienza o solo per prendersi un caffè, tanto che il termine “arte” è quasi sparito da inviti e comunicazioni.

 

L’intenzione non sarebbe neanche sbagliata: rendere più accessibile un linguaggio spesso cifrato, bisognoso non solo di spiegazioni ma anche di una certa visione storica dell’insieme. Rendere anche fruibili luoghi fino a poco fa protetti da muri trasparenti, dove certi gruppi sociali non si mischiano, ma si proteggono specchiandosi nella propria luce esibita. Mentre l’arte entra nelle boutique, attori che si travestono da artisti in cerca di una credibilità non solo artistica ma anche intellettuale, il regista Michel Gondry interessato a presentare il suo prossimo film in un contesto artistico e artisti che producono video che ambiscono ad essere film di sala, si potrebbe leggere il linguaggio (e sistema) dell’arte come quello più adatto a sintetizzare la non-specificità che caratterizza il nostro tempo.

 

Essendo quindi molto contemporary, perché allora la retrospettiva di Bjork compete (e siamo sicuri che vincerà) per la peggior mostra dell’anno? Innanzitutto perché Bjork non ha esperienza curatoriale, non sa come tradurre in mostra un pensiero. Invece di essere guidata, hanno pensato bene di lasciarla fare, forse perché “i geni sanno cavarsela”. La mostra è colpevole di ambivalenza, cercando di accontentare tutti, finisce per implodere su se stessa. Si viene abbagliati dal simbolo d’ansia di onnipotenza del museo, voglioso di essere tutto per ognuno, dal senso di sufficienza verso il pubblico affezionato e dall’assenza di ambizione. Bjork, appassionata ma astuta, avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto e rifiutare l’invito così come fece nel 2000. Ma forse la sua scelta è più personale, oltreché decifrabile e comprensibile: esibirsi nelle vesti di artista al MoMA, arrivando prima del suo ex marito (il celebrato artista americano Matthew Barney). Alla fine tutto si riduce alla vendetta personale.

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