Un poliziotto greco durante gli scontri ad Atene del 26 febbraio

Il virus massimalista esiste pure alla sinistra di Tsipras

Maurizio Stefanini

Syriza deve fare i conti con Antarsya, l'ala estrema del partito. Ma in Europa e in America Latina tutti, riformatori e conservatori, sono stati colpiti dalle correnti più radicali

Il governo Tsipras ha perso l’innocenza. Autoconvocati via reti sociali, circa 500 manifestanti vicini all’estrema sinistra e agli “antagonisti” sono scesi in piazza a Atene, scatenando la guerriglia urbana contro l’accordo che l’esecutivo di Syriza ha raggiunto con Bruxelles, per ottenere altri quattro mesi di finanziamenti. Vetrine e fermate dei bus distrutte, molotov lanciate, auto bruciate, al termine di una marcia. Teatro degli scontri il Politecnico, luogo mitico delle rivolte greche fin dal tempo del regime dei colonnelli.

 

Antarsya è la sigla responsabile di questa protesta: un acronimo che tradotto sta per Cooperazione di sinistra anticapitalista e che non fa che portare in piazza una serie di mal di pancia che erano emersi all’interno stesso di Syriza. Anzi, era successo quasi in contemporanea, da noi e da loro. In Italia, l’attacco di Landini a Renzi. In Grecia, la rivolta dell’ala di sinistra di Syriza contro il tentativo di Tsipras di raggiungere un compromesso con Bruxelles. “Una vergogna”, ha tuonato ad esempio il 91enne eurodeputato Manolis Glezos, quello che a 18 anni, nel 1943, si era arrampicato sul Partenone per staccare la bandiera nazista. Oggi è considerato una specie di Pertini ellenico e ha parlato di “promesse non mantenute” chiedendo pure scusa al popolo greco per avere “partecipato a questa illusione”. La sua è in effetti un’analisi che più che alla politica attiene alla categoria della profezia: “Non ci può essere compromesso tra schiavo e padrone, né tra oppressore e oppresso!”. E ricorda le critiche che un ex-missionario passato alla politica come Eugenio Melandri faceva ai congressi di Rifondazione Comunista quando si dibatteva sull’opportunità o meno di aderire al progetto dell’Ulivo, spiegando che il semplice fatto di andare al governo avrebbe rappresentato un tradimento rispetto alle speranze di chi ancora credeva all’utopia della falce e martello. Ma anche membri del governo di Atene come il ministro dello Sviluppo economico Panagiotis Lafazanis e il vice ministro del welfare Dimitris Stratouli hanno parlato di “linee rosse non superabili” e “passo indietro rispetto alle promesse elettorali”. Non siamo ancora al leader di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, in piazza contro quel governo Prodi "2" di cui era ministro della Solidarietà sociale, assieme d’altronde a ben quattro sottosegretari. Ma il rischio è forte. Quando poi andiamo a quella corrente di Syriza che si chiama Tendenza comunista e che chiede ai parlamentari di votare contro l’accordo e agli iscritti di fare un congresso per sostituire Tsipras con un altro leader, qua andiamo direttamente agli omologhi di quei Franco Turigliatto e Fernando Rossi, che contribuirono pesantemente al naufragio del Prodi "2". Dopo che già Bertinotti aveva fatto naufragare il Prodi "1".

 

Certo: Prodi non è Renzi, e Renzi non è Tsipras. Ma proprio la differenza tra i tre modelli insegna come il virus della dissidenza massimalista può colpire tutti: riformisti, moderati, e anche chi massimalista lo era già in partenza, ma deve comunque fare i conti con il bagno di realtà che comporta ogni esperienza di gestione delle istituzioni. Nell’albo di famiglia ci sono d’altronde anche due presidenti “del Socialismo del XXI secolo” latino-americani come l’ecuadoriano Rafael Correa e il boliviano Evo Morales, tutti e due oggi idolatrati dalla sinistra radicale europea, ma combattuti da quella di casa loro. Di Correa, in particolare, ambientalisti, indigenisti e femministe contestano la conversione agli ogm, la scelta di ricercare il petrolio in Amazzonia, l’opposizione all’aborto. Di Morales il nucleare e le transamazzoniche. “Magia bianca magia nera Ecuador: la guerra fra culture come guerra di classe” (Jaca Book, 116 pp., 12 euro) è un recente pamphlet in cui un teorico marxista come Carlo Formenti dà conto di come è andato a controllare il modello Correa da vicino, per stigmatizzare quella che secondo lui è stata una semplice “modernizzazione del capitalismo dal volto umano”. Poiché questa “modernizzazione” è per ora economicamente di successo ma pure abbastanza autoritaria, tali contestazioni sono state rapidamente marginalizzate.

 

Senza bisogno di autoritarismo perché lì basta il clientelismo, anche il blocco sociale costruito attorno al Pt di Lula e Dilma Rousseff in Brasile e quello dell’Anc in Sudafrica sono riusciti a marginalizzare rispettivamente il Partido Socialismo e Liberdade di Heloisa Helena  e gli Economic Freedom Fighters di Julius Malema. Ma è la conferma della regola per cui anche se governa Lula c’è chi vuole Chávez, e se governa Zuma c’è chi vuole Mugabe. Ma neanche la storia delle socialdemocrazie più mature è esente dal rischio. La Spd tedesca, per esempio, vinse le ultime elezioni nel 2002. Dopo di che, il governo di Gerhard Schröder fece sì quelle riforme che hanno ritrasformato la Germania nella locomotiva economica d’Europa, ma subendo quella scissione di Oskar Lafontaine che già presidente del partito tra 1995 e 1999 è poi finito con gli ex-comunisti dell’est a fondare la nuova Linke. E da allora la Spd non è più riuscita a ottenere un cancelliere, vedendosi costretta o alla Grande Coalizione o all’Opposizione. Un importante modello di sinistra al potere è stato anche quello di François Mitterrand, che nel 1981 riportò per la prima volta i comunisti al governo in un Paese dell’Europa Occidentale dall’inizio della Guerra Fredda. Ma ne seguirono tre anni particolarmente travagliati, al termine dei quali dopo i tre esecutivi di Pierre Mauroy nel 1984 ci fu quello di Laurent Fabius, senza più Pcf. Che per i comunisti francesi lo scontro con Mitterrand sia stato altrettanto esiziale di quello di Prodi con i comunisti italiani, dimostra che è raro il modello Linke in cui il massimalismo paga dal punto di vista elettorale. Ma anche lì, comunque, alla fine chi vince è a destra.

 

[**Video_box_2**]L’esempio massimo è forse quello di Ramsay MacDonald: primo laburista premier del Regno Unito. Il primo incarico lo ebbe nel 1923, ma allora il suo governo di minoranza durò solo 10 mesi. Il suo secondo soggiorno a Downing Street iniziò nel 1929: di nuovo un governo di minoranza, ma con i laburisti che per la prima volta erano il primo partito. Anche lui si ritrovò però con la crisi, e pur senza una Troika a costringerlo dovette prendere misure simili a quelle che ora sta prendendo Tsipras. Effettivamente i laburisti fecero quel che Tendenza Comunista chiede di fare in Syriza, e il primo ministro fu cacciato dal partito. Ma rimase al governo in coalizione con conservatori e liberali fino al 1935, per poi cedere il posto a un conservatore. Con il che i laburisti si trovarono all’opposizione nel momento in cui Hitler arrivava al potere, e a Downing Street finiva l’imbelle Chamberlain.  

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