Ma Salvini si trova costretto a fare di necessità virtù, come pure sono costretti a fingere anche Zaia e Maroni

Stato della disunione

Salvatore Merlo

Tosi contro Salvini, Salvini contro Alfano, Alfano contro Forza Italia, Forza Italia contro se stessa. Perché la destra è un sommario di decomposizione pre elettorale. 

Roma. Il progresso nasce sempre da una stonatura, da una stecca, da una voce discorde che improvvisamente esce fuori dalla partitura e va per conto suo. Ma in ciò che rimane del centrodestra italiano la polifonia è corale, tutti vanno per conto loro, ciascuno con un suo gorgheggio aggressivo: Flavio Tosi contro Matteo Salvini, Matteo Salvini contro Angelino Alfano, Angelino Alfano contro Forza Italia e Forza Italia contro se stessa. E così, tra anacoluti, volgarità, urla e ridondanze, non ci sono smorfie da medico al capezzale del moribondo che bastino a esprimere i dubbi sulla vitalità d’un cosmo politico che pure ha avuto la sua fierissima grandeur, e ha dominato la politica italiana dal 1994 in poi. Ieri sera anche Silvio Berlusconi, nei conciliaboli di corte, in un via vai di tese riunioni e affannose telefonate, ha trovato la verità in un eccesso d’inquietudine piuttosto che con l’aiuto di un metodo. E dunque il Cavaliere è preoccupato dalle elezioni regionali, da quelle alleanze inafferrabili che esplodono e si attorcigliano attorno al suo partito, in un kaos che allude più al principio della fine che al principio di un principio: in Veneto, Lega e Forza Italia pare sostengano il candidato governatore uscente Luca Zaia, mentre il partito di Alfano è escluso, ma Flavio Tosi, il sindaco di Verona, si ribella, minaccia sfracelli, autocandidature e sollevazioni di popolo che spingono Roberto Maroni ad alzare la voce: “Guai a chi tocca Zaia”. E lo stesso marasma ribolle all’incirca nel sud, in Campania, e poi anche in Liguria, e pure nelle Marche e in Toscana. E va bene che lì comunque non si vince mai, a destra, ma anche qualora ci fosse stata una remota possibilità la situazione appare così fuori controllo da escludere la vittoria con certezza: Forza Italia si allea con il Nuovo centrodestra, mentre la Lega di conseguenza soffia, scalcia e per ritorsione vorrebbe far saltare il fragile abbraccio tra Berlusconi e Alfano (e Casini) in tutto il meridione, laddove forse – in Campania, chissà – il centrodestra potrebbe ancora tentare di (ri)vincere. Tutto è ancora possibile, certo, ma questo ringhioso balletto di alleanze vere e presunte, tutto questo tirar di giacche e venirsi dietro con il mattarello in mano tra consanguinei, a ben vedere sembra il riflesso crepuscolare della vita interna di ciascuno dei partiti del centrodestra, ognuno attraversato da invidie, polemiche, guerre intestine che divampano con fracasso di rovina.

 

E dunque in Forza Italia c’è Raffaele Fitto, che diffonde il contagio della ripulsa tra i parlamentari, premessa necessaria per il formarsi di un’opposizione sempre meno sotterranea alle decisioni del Cavaliere e della corte di Arcore. E se Berlusconi ha una parola per tutti, come il Papa, e dunque si fa necessariamente ecumenico e pacioso – “qui da noi non si caccia nessuno”, dice, stanco di quell’universo eternamente agitato, in movimento, attorno a lui – al contrario i suoi generali e colonnelli, i sottufficiali e i semigraduati di Forza Italia, si combattono tra loro con accanimento: menano fendenti come spadaccini ciechi sulle tavole d’un teatro pericolante. Così i capigruppo Paolo Romani e Renato Brunetta non fanno più mistero di non sopportarsi, ma poi si trovano d’accordo nel disaccordo con gli attivissimi Giovanni Toti e Mariarosaria Rossi, che a loro volta sono in guerra sia con Denis Verdini e Gianni Letta, accusati di nazarenismo, sia con Raffaele Fitto, accusato d’alto tradimento, nientemeno. Toti ha rilasciato due interviste in dieci giorni, al Corriere e alla Repubblica, per preparare l’espulsione di Fitto da Forza Italia. E dunque tutti loro, che di Berlusconi hanno adorato l’autorità e il miracolo, adesso vanno avanti così, privi di riferimenti, come cavalli selvaggi: chi tira verso Alfano, chi verso Salvini, chi verso Renzi, tutti contro tutti. E solo l’arruffarsi delle polemicuzze, solo lo scoppiettare dei conflitti interni nei corridoi di piazza San Lorenzo in Lucina, riesce ad attestare un’illusione d’esistenza: la lotta per un incarico da coordinatore, ma di un partito mezzo squagliato; il duello di maldicenze per una poltroncina da capogruppo, ma d’un gruppo spaurito e in rivolta; la contesa per una medaglietta e un pennacchio nel partito inchiodato dai sondaggi alle spalle della Lega.

 

[**Video_box_2**]Ma nel partito di Salvini non va meglio, malgrado i sondaggi che si gonfiano di euroscetticismo e di fastidio per gli immigrati, paura degli islamici e di tutto ciò che sta fuori dalla provincia di Varese. Anche la Lega vive di effimere gioie e potenti veleni. E dunque Flavio Tosi minaccia di candidarsi alla presidenza del Veneto contro il suo stesso partito, vorrebbe ricostruire alleanze con il centrodestra, ritessere rapporti trasversali in una logica di governo, non ha remore di igiene nei confronti di Alfano. E più che con Luca Zaia, con l’attuale governatore, Tosi ce l’ha con Matteo Salvini, ovvero con quell’istinto gruppettaro, da minoranza agguerrita, che il sindaco di Verona considera una condanna all’opposizione permanente per il partito padano che pure, nel ventennio appena trascorso, aveva governato ministeri romani e riforme federaliste con Umberto Bossi installato ad Arcore in canottiera. E se Tosi fa la guerra a Salvini, Salvini si stringe attorno a Zaia e a Roberto Maroni, ma li guarda entrambi – ed è da entrambi guardato – con remoto sospetto: il leader della Lega diffida silenziosamente di Zaia, avrebbe preferito sostituirlo in Veneto, come ha confessato agli amici l’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini. Ma Salvini si trova costretto a fare di necessità virtù, come pure sono costretti a fingere anche Zaia e Maroni, i due presidenti di regione infastiditi dal nervosismo eccessivo di Tosi, ma incerti nel giudizio su Salvini. E infatti loro amministrano bilanci, la sanità e la spesa pubblica, gestiscono un potere tentacolare, che è ovviamente fatto di compromessi e di negoziati, anche con le altre forze politiche. Dunque entrambi osservano con sguardo interessato e concupiscente il recupero di consensi, il miracolo di Salvini, il ritorno della Lega alla vita nel mercato elettorale, ma sono pure preoccupati, e molto, che il nuovo leader non sappia distinguere tra propaganda elettorale e utile politico, cioè tra le sparate eversive che faceva anche Bossi e il pragmatismo geometrico che sempre richiede l’amministrazione del potere. E si trovano costretti a brontolare la verità, ma come i camerieri delle osterie, cioè in cucina, quando non li ascolta nessuno. E così, mentre Salvini lancia bombe a mano sui partiti con i quali entrambi governano in Veneto e in Lombardia, Maroni e Zaia intravedono l’impalbabile rete del destino calare torva su tutti loro.

 

All’incirca quello che succede anche nel retrobottega del Nuovo centrodestra e dell’Udc, gli atomi galleggianti di Alfano e di Casini uniti in un gruppo parlamentare che si chiama Italia popolare, e che compone il terzo vertice del triangolo sformato della destra italiana. Dall’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, i dirigenti e i parlamentari del centro vanno sporcando la loro giornata di sguardi fiacchi, passi gravi, pensieri malinconici e stanchi. E ciascuno di loro, ormai da settimane, accende nel buio dei corridoi di Palazzo una sua trattativa privata, alternativamente con Renzi o con Berlusconi, a seconda del gusto personale. E dunque Maurizio Lupi, il ministro dei Trasporti, da un po’ chiede d’essere investito del ruolo di leader sul campo, vorrebbe fare il segretario, recuperare i rapporti con Forza Italia, e persino lasciare il governo: considera infatti Matteo Renzi una pericolosa sirena di cui diffidare. Ma circa un terzo del gruppo parlamentare, specie tra i meridionali, in Senato, non è d’accordo. E da tempo, lì, a Palazzo Madama, si sono allacciati rapporti intensi con il Partito democratico. Sentite cosa dice per esempio Gaetano Quagliariello, senatore e coordinatore di Ncd, intervistato dal Mattino: “In astratto sarebbe necessaria una collaborazione con il Pd che andasse anche oltre questa legislatura. Ma dovrebbe trattarsi di un rapporto strutturato, non lasciato all’improvvisazione del momento”. Così, per quanto il partito sia piccolo, nelle quattro mura del monolocale, quando i ragazzi di Alfano e Casini si trovano gli uni di fronte agli altri, il frasario talvolta si fa esagitato e gli insulti volano con gaiezza maligna da una parete all’altra. Lupi spinge Alfano a telefonare al Cavaliere, Quagliariello conta i dissidenti, Nunzia De Girolamo tiene mezzo piede dentro Forza Italia, Casini chiede a Gianfranco Rotondi di convincere Berlusconi a mollare Salvini, il vecchio Ciriaco De Mita vuole Renzi, mentre alle regionali i centristi si dividono: in Puglia Ncd va con la destra e l’Udc con la sinistra, come pare stia succedendo anche in Campania. Così i litiganti compilano questo sommario di decomposizione d’un mondo che si volle centrodestra.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.