Yanis Varoufakis (foto LaPresse)

Vecchia sovranità adieu

La Grecia resta appesa all'euro, ma su di sé non decide più da sola

David Carretta

Il dossier “debito” ridotto al margine delle trattative. Conta più l’agenda riformista di Merkel o il mandato popolare? L’accordo “di principio”.

Bruxelles. Alla fine, nell’intesa raggiunta tra Wolfgang Schäuble e Yanis Varoufakis che nel successivo Eurogruppo ha sbloccato un accordo “di principio” per estendere gli aiuti alla Grecia, la grande questione del debito non è entrata. La posta in gioco del lungo negoziato sull’estensione del programma di assistenza finanziaria in fondo era un’altra: l’agenda radicale di Alexis Tsipras contro l’egemonia riformista della cancelliera tedesca, Angela Merkel, e dell’establishment della zona euro. Il dibattito su una cancellazione o una ristrutturazione – la clava anti europea usata in campagna elettorale da Syriza – non è entrato nelle stanze dell’Eurogruppo. Perché, in realtà, il debito non è un’urgenza nemmeno per Tsipras e Varoufakis. Da settembre in poi, grazie alla ristrutturazione mascherata effettuata dai creditori europei nel 2012 con scadenze prolungate, l’odissea del debito greco si trasformerà in un viaggio più tranquillo. La Grecia dovrà iniziare a rimborsare i partner della zona euro solo nel 2020. Il dibattito all’Eurogruppo era sul diritto di chi ha già salvato Atene due volte di influenzare e controllare le politiche economiche di un governo con un chiaro mandato popolare.

 

Il tedesco Schäuble lo ha spiegato con un elegante giro di parole: “Le discussioni sulla Grecia non riguardano un solo paese, ma l’Europa nel suo insieme. Riguarda la fiducia reciproca”. Agli occhi di alcuni creditori, la lettera che Varoufakis aveva inviato al presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, per chiedere l’estensione del programma era troppo ambigua. Nessun impegno chiaro sugli obiettivi di bilancio, né sulle riforme strutturali. Il sospetto era quello di una truffa organizzata per incassare la protezione finanziaria europea, salvo poi fare in Grecia ciò che Tsipras ha promesso di fare: smantellare i progressi realizzati con fatica a colpi di tagli e riforme impopolari. Senza aspettare l’esito dei negoziati all’Eurogruppo, Tsipras e Varoufakis stavano per iniziare a realizzare il loro programma elettorale. Il Parlamento di Atene ieri doveva votare una serie di leggi “sociali” e la reintroduzione del contratto nazionale unico. Le privatizzazioni sono state di fatto bloccate. Il governo ha fatto i primi passi per un super condono fiscale. Tutto legittimo: Tsipras e Varoufakis hanno un mandato popolare. Ma i creditori ritenevano di avere un pari diritto, altrettanto legittimo dal punto di vista democratico: quello di proteggere il denaro dei propri contribuenti, prestato per 30 anni ad Atene, da misure che riporterebbero la Grecia alla sregolatezza pre-crisi.

 

Dopo gli errori iniziali della Troika e la fatica nel convincere i greci a seguire la via riformatrice, l’economia nel 2014 era tornata a crescere un po’. Anche se con ritardo e difficoltà sociali, la Grecia stava imboccando la strada di uscita dalla crisi, come già accaduto con Irlanda, Spagna e Portogallo dopo aver accettato l’egemonia riformista. Lo stesso principio che si è chiesto di rispettare alla Grecia era stato adottato dalla Bce con la sua lettera a Italia e Spagna dell’agosto 2011, in cambio degli acquisti di Btp e Bonos. Se la democrazia nazionale si è costruita sul principio del “no taxation without representation”, la crisi dell’euro ha spinto il progetto europeo verso il “no credit without representation”.

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