Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Crescita stai serena

Renato Brunetta

I veri numeri sulla disoccupazione, l’errore strategico sugli 80 euro e alcuni consigli non da gufi. Perché Renzi non riesce a far crescere il paese (e cosa dovrebbe fare, ora). Si chiama “isteresi” quando la cattiva congiuntura si trasforma in un vero e proprio danno cerebrale. Capito Matteo? - di Renato Brunetta

Dalle stelle alle stalle. Dalle immaginifiche previsioni del Centro Studi di Confindustria alla doccia fredda dell’ultimo documento della Commissione europea.

 

Secondo viale dell’Astronomia, il potenziale di crescita dell’economia italiana potrebbe essere, nei prossimi due anni (2015 e 2016), rispettivamente del 2,1 per cento e del 2,5 per cento. Il valore più alto degli ultimi tredici anni. Per la Commissione europea, bene che vada, saremo ad un modesto 0,6 per cento e 1,3 per cento.

 

Sull’occupazione, poi, da parte dei primi nessun dato: solo semplici auspici. Un laconico: “Le aspettative delle imprese sull’occupazione sono in miglioramento”. Quando invece la Commissione europea vede un tasso di disoccupazione inchiodato al 12,8 per cento. Con un ipotetico calo (dello 0,2 per cento) solo nel 2016.

 

Dato allarmante non solo per il suo valore in sé, ma per la differenza che resta rispetto alla media di tutti i paesi dell’Unione europea. Un gap a nostro svantaggio di circa 3 punti, che tende a crescere con il trascorrere del tempo. Segno evidente della diversa efficacia delle politiche economiche seguite dall’Italia rispetto agli altri partner dell’Ue. Mentre nell’intera Europa nei prossimi due anni la disoccupazione diminuirà di circa 1 punto (dal 10,2 per cento al 9,3 per cento), in Italia continua ad essere più o meno stabile.

 

E’ soprattutto questa la grande preoccupazione. Talmente grande da spingere la Commissione europea a paventare il pericolo di “isteresi”(pag. 83 dell’ultimo Rapporto). Di che si tratta? E’ noto agli economisti. Si ha “isteresi” quando la cattiva congiuntura si trasforma in un vero e proprio danno cerebrale. E il tasso di disoccupazione, inizialmente generato dalle avverse circostanze del ciclo economico, diventa strutturale.

 

Se questa sventurata ipotesi dovesse prendere corpo in Italia, non ci sarà speranza di futuro per milioni di lavoratori, soprattutto giovani e donne. Il problema, quindi, rischia di divenire drammatico. Ma è anche la spia dei limiti della politica economica fin qui seguita dal governo.

 

I già citati economisti sono concordi nel dire che in ogni economia di mercato periodi di crisi sono fisiologici, e in quanto tali durano in genere un periodo limitato. Così è, in effetti, per gli altri paesi europei. Non per l’Italia. La crisi da noi dura da troppo tempo. Solo Cipro ne contende il triste primato.

 

Mentre gli altri grandi ex malati (Spagna, Portogallo e Grecia) sono usciti dalla recessione già dal 2014, e hanno un primo segno “più” da scrivere sulla lavagna. Non solo: quella italiana è anche la crisi più profonda in termini di distruzione di ricchezza. Il reddito pro capite è crollato ad una velocità pari al doppio della media dell’Eurozona. Anche in questo caso, con la sola eccezione di Cipro.

 

Ma perché in Italia la crisi non è finita? E perché da congiunturale rischia di incancrenirsi? Perché i meccanismi di riconversione produttiva, che sono l’elemento fisiologico che garantisce la ripresa, si sono bloccati. Ha voglia Matteo Renzi a ripetere, come faceva qualche tempo fa, che la crescita è come la primavera: prima o poi arriverà.

 

Il cambiamento climatico è un fatto naturale. Le regole dell’economia sono diverse. Non c’è alcunché di meccanico. Servono ingredienti che sono la sommatoria delle volontà individuali e di quelle collettive. Vale a dire le aspettative diffuse, dai lavoratori agli imprenditori, e una linea di politica economica capace di guidare un intero esercito. Se questi elementi vengono a mancare, la ripresa diventa il sogno di una notte di mezza estate, ma senza la suggestione dell’opera shakespeariana.

 

La progressiva perdita di potenza dell’economia italiana è ampiamente dimostrata nell’ultimo rapporto dell’Ocse: “Going for growth”. Scrive l’organizzazione parigina, una volta sede di lavoro di Pier Carlo Padoan, che nel 2007 il reddito pro capite italiano era del 22,7 per cento inferiore alla media dei primi 17 Paesi Ocse. Nel 2013, questa percentuale è aumentata al 30 per cento.

 

Dal lungo cono d’ombra che ha accompagnato la crisi della Lehman Brothers l’Italia non è mai uscita. E di questo dobbiamo ringraziare Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi. Le nostre responsabilità sono state diverse: quelle di non aver saputo resistere nel 2011 all’offensiva dei poteri forti e di aver accettato la decisione di un governo tecnico del presidente della Repubblica, invece di andare a nuove elezioni. Forse oggi avremmo assistito a un film differente.

 

E che dire di quest’ultimo anno? Abbiamo perso dodici mesi, e ancora non è finita, a discutere di riforme dall’inequivocabile segno politicista: riforma del Senato e della Legge elettorale. L’economia, salvo qualche piccola variante, è stata lasciata a se stessa.

 

Se l’Italia avesse seguito questa stessa strada alla fine della guerra, vale a dire se avesse atteso il dispiegarsi delle riforme previste dalla Carta costituzionale appena varata, non avremmo avuto quel “miracolo economico” che in soli pochi anni trasformò il nostro paese, prevalentemente agricolo, in una potenza industriale.

 

Il Pci di allora vagheggiava un non meglio definito “nuovo corso” per la politica economica: tormentone che negli anni successivi divenne quello del “nuovo modello di sviluppo”. Vi fu, per fortuna, la “restaurazione capitalista”, come si dannò la cultura comunista. O, se si preferisce, la “restaurazione liberale antifascista”, secondo la visione più dotta, ma non meno critica, degli esponenti del Partito d’azione.

 

Sembrano fatti lontani, eppure una dinamica per molti versi analoga si sta manifestando proprio di fronte ai nostri occhi. Ci si accapiglia su ipotetiche riforme che produrranno i loro effetti non si sa quando.

 

Nel frattempo l’economia è lasciata a se stessa. Recettiva di fronte alle spinte provenienti dal mercato, ma senza poter contare sul sostegno che dovrebbe derivare da una politica economica in grado di governare e amplificare “il cambiamento”.

 

Assistiamo in tal modo a una politica monetaria espansiva, alla progressiva caduta del prezzo del petrolio e alla svalutazione dell’euro in maniera passiva, e i vantaggi che questi fenomeni portano in tutti gli altri Paesi da noi hanno un effetto limitato.

 

Il semplice confronto internazionale lo dimostra: secondo la Commissione europea, nel 2015 l’Italia crescerà a un ritmo pari a meno della metà rispetto alla media dell’intera Europa, e non andrà meglio nel 2016. Quando avremmo bisogno che succedesse il contrario, al fine di recuperare almeno parte del territorio perduto, visto che, per Banca d’Italia, nel 2016 il Pil italiano “si colloca ancora sette punti percentuali sotto il livello del 2007”. Sempre che, aggiungiamo noi, quelle rosee previsioni non rechino, com’è sempre avvenuto negli ultimi anni, nuove delusioni.

 

[**Video_box_2**]Sono giuste queste critiche o risentono del solito cliché di una forza d’opposizione? La principale, e unica, misura di politica economica assunta da Matteo Renzi nel suo anno di governo è stata quella di dare 80 euro al mese al suo blocco sociale di riferimento. Costo: 6,5 miliardi nel 2014 e 10 miliardi nel 2015. Misura gabellata come contributo allo sviluppo. Doveva far ripartire i consumi e quindi, per questa via, contribuire alla maggior crescita del Pil italiano.

 

Citiamo ancora Banca d’Italia: “Nel complesso, le misure espansive contenute nella Legge di stabilità (di Renzi, nda) hanno un impatto positivo sul Pil pari a circa lo 0,8 per cento nel biennio 2015-2016. Le coperture previste sottraggono quasi 0,6 punti percentuali di prodotto interno lordo”. Risultato netto: 0,1 per cento in più all’anno. Quando abbiamo detto che con una mano si dava, a favore dei propri potenziali elettori, e con la altra si toglieva, a tutti, non avevamo forse ragione? E quelle risorse, così faticosamente trovate, non potevano essere utilizzate diversamente?

 

È l’Ocse a fornirci l’indizio più consistente, quando critica “i frequenti cambiamenti intervenuti nella tassazione degli immobili”, che nel 2013 hanno determinato “instabilità e incertezza” nel Paese. Per la sinistra, ancora oggi gli immobili rimangono un oggetto misterioso. Ideologicamente è rimasta al tempo di Francesco Rosi e del suo film: “Le mani sulla città”. Solo speculazione e corruzione; devastazione dell’ambiente, cementificazione e patrimonio dei “ricchi borghesi”.

 

Paraocchi che impediscono alla sinistra italiana di comprendere qual è il ruolo del settore edile, non solo in generale, ma soprattutto nelle specifiche condizioni italiane. Eppure non è così difficile: basterebbe guardare i dati della disoccupazione per vedere come il forte aumento degli ultimi anni sia stato determinato in misura prevalente proprio dagli immobili che non si costruiscono più e di un invenduto che ha azzoppato l’intero sistema economico italiano.

 

La crisi dell’edilizia, infatti, ha trascinato tutto il resto, a partire dai servizi. E questa crisi non era di natura ciclica, com’è noto, ma è stata indotta dall’eccesso di tassazione, passata dai 10 miliardi scarsi del 2011 ai 30-35 miliardi attuali.

 

Ovviamente, se non si costruisce crolla il valore aggiunto, e di conseguenza il Pil. Date le relazioni intersettoriali, si può dire che solo con la crisi dell’edilizia ci siamo “mangiato” oltre mezzo punto di Pil all’anno.

 

Ma questo è solo un aspetto del problema. Se fossimo alla saturazione del mercato, con una domanda interna ormai interamente soddisfatta, non avremmo di che lamentarci. Invece la crisi è conseguenza dell’eccesso di costi che caratterizza il possesso di qualsiasi abitazione, compresa quella in cui ci si vive abitualmente.

 

Se l’immobilizzazione di capitale non solo non è remunerativa, ma si chiude sistematicamente in perdita, allora conviene vendere. Ed ecco che l’eccesso dell’offerta rispetto ad una domanda stabile o in diminuzione determina quella caduta rovinosa dei prezzi che si è verificata in Italia, ma non negli altri Paesi: non a Londra, non a Berlino, non a Parigi.

 

Il volto specifico della deflazione italiana ha questa componente aggiuntiva. Essa non è interamente spiegata né dalla politica espansiva della Bce, né dalla caduta del prezzo del petrolio. Ed è per questo che Banca d’Italia paventa una situazione in cui anche nei prossimi due anni “restano deboli le componenti interne dell’inflazione, riflettendo l’influenza dell’ampia capacità produttiva inutilizzata”.

 

Solo che, mentre a livello industriale il gap può essere recuperato grazie alle esportazioni, nel caso dell’edilizia ciò può avvenire solo riducendo il carico fiscale che grava sugli immobili, ormai eccessivo anche rispetto agli standard internazionali. Ci siamo battuti a lungo, purtroppo senza successo, per questa prospettiva. Avrebbe contribuito ad anticipare e rafforzare la svolta ciclica che si intravvede, pur con molti dubbi e incertezze, all’orizzonte.

 

Un nuovo regalo ai “palazzinari” secondo la visione radical chic? Chi ragiona così non sa di che parla. Gran parte dello sviluppo americano o inglese è legato al cosiddetto “effetto ricchezza”, che può essere prodotto sia dalla borsa che dalle dinamiche del mercato immobiliare.

 

Se il valore degli asset (azioni, immobili, ecc.) aumenta, accrescendo il patrimonio personale, individuale o familiare degli investitori, viene meno lo stimolo a risparmiare, e la maggior parte del reddito disponibile è speso in consumi, tanto il futuro è assicurato dall’aumento della ricchezza posseduta.

 

L’esatto opposto si verifica in caso di crollo di borsa o di distruzione degli altri valori, per esempio immobiliari. La prima reazione è quella di ricostituire le proprie scorte finanziarie, che sono un presidio contro l’incertezza. In questo caso, quindi, si alzano i ponti levatoi: ci si rinchiude nel proprio guscio, contraendo i consumi.

 

Il conseguente calo della domanda amplifica la crisi, con l’effetto valanga che troviamo nei numeri che illustrano la crisi italiana. Ed ecco allora che la sciocchezza iniziale del rigore e del “colpiamo i borghesi” si trasforma in una disgrazia, che fa male soprattutto ai ceti meno abbienti, che pagano il prezzo maggiore della crisi.

 

Questo è l’aspetto principale su cui la sinistra dovrebbe riflettere. La ripresa produttiva, impensabile senza margini di profitto almeno non troppo disallineati rispetto agli standard internazionali, premia indubbiamente la classe media, che in Italia rappresenta tuttavia l’80 per cento degli occupati, ma ha una forza inclusiva straordinaria, che estende il beneficio a tutti.

 

Al contrario, la semplice redistribuzione di ricchezza, se frena lo sviluppo, nel medio periodo ha solo effetti controproducenti. Per cui la conclusione è scontata. Quei 10 miliardi spesi per ottenere una crescita aggiuntiva pari solo allo 0,1 per cento del Pil dovevano essere utilizzati in modo più produttivo.

 

Non si poteva ridurre, per esempio, in modo corrispondente, la tassazione sugli immobili, per rimettere in moto direttamente l’economia, senza inutili e improbabili passaggi attraverso un maggior ipotetico consumo che non si è manifestato?

 

La verità è che fino a quando nel sistema politico italiano mancherà un confronto e un contraddittorio, qualsiasi soluzione tecnica approntata rischia di dimostrarsi inefficiente. Come risulta evidente dai dati oggettivi, e non di parte, che abbiamo riportato.

 

Matteo Renzi ci faccia un pensierino. Soprattutto abbandoni la sua “vocazione maggioritaria” (rectius: di “asso piglia tutto”), per ascoltare campane diverse. Una buona musica non è mai fatta da una sola nota. Vale per le sinfonie, ma soprattutto per la politica.