Frank Underwood, il personaggio della serie televisiva, House of Cards

Come costruire un leader di centrodestra secondo il modello Underwood

Francesco Costa

Tony Blair ha detto una volta che in politica è un errore avere torto ma anche avere ragione troppo presto. Per quanto la classe politica italiana non brilli per coraggioso avventurismo, a qualcuno questa frase potrebbe far fischiare le orecchie.

Tony Blair ha detto una volta che in politica è un errore avere torto ma anche avere ragione troppo presto. Per quanto la classe politica italiana non brilli per coraggioso avventurismo, a qualcuno questa frase potrebbe far fischiare le orecchie: per esempio ai molti che negli ultimi dieci anni si sono misurati col tentativo di costruire un nuovo centrodestra – senza maiuscole – salvo uscirne tutte le volte molto male. Il modo in cui il centrodestra ha vissuto e subìto l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica sancisce probabilmente l’inclusione della figurina di Angelino Alfano in un album degli sconfitti già piuttosto ricco. Tutti diversi da Berlusconi, diversi tra loro, protagonisti di diverse ere politiche e con desideri diversi: l’esito dei loro sforzi, però, è stato più o meno lo stesso.

 

La logica elementare dice che lavorare per l’esistenza di un centrodestra che possa fare a meno di Berlusconi è necessario: l’uomo ha una lista di acciacchi – non solo giudiziari – che non finisce mai, è provato come non potrebbe non essere la persona che ha passato più giorni da presidente del Consiglio nella storia della Repubblica italiana ed è anche, al momento, tecnicamente ineleggibile. Inoltre il suo avversario è un giovane squalo che va come un treno. Insomma, non siamo più nel campo delle opinioni, il giudizio su Berlusconi c’entra fino a un certo punto: costruire un nuovo centrodestra – senza maiuscole – è opportuno, volersi mettere al centro di quel futuro è un obiettivo legittimo. E allora perché anche Alfano è andato a sbattere, dopo tutti gli altri? E’ anche una questione di tempismo, come diceva Blair: ma è solo una questione di tempismo?

 

La prima e più banale risposta sarebbe che Alfano non è Berlusconi: e cioè che – come prima di lui Follini, Casini e Fini – non ha l’influenza, il carisma e la capacità di raccogliere consensi di Berlusconi e neanche la conseguente rendita di posizione. Eppure nessuno di questi personaggi è o era un dilettante, non è che questo fatto gli fosse sconosciuto: e anche quelli che non hanno il quid hanno comunque avuto del coraggio, a prendersi la responsabilità di cominciare una cosa nuova da un’altra parte. Altre potenziali risposte riguardano una certa discrepanza di obiettivi (Follini e Casini erano più interessati a fare una cosa di centro, piuttosto che una di centrodestra), l’improvvisazione delle scelte politiche (qualcuno potrebbe sostenere che sia stato Berlusconi a tradire Alfano, mollando Letta quando non si poteva tornare a votare e costringendolo a fondare il Nuovo Centro Destra con le maiuscole: non il contrario) e la sfortuna dei rigori sbagliati all’ultimo minuto: come quello capitato a Gianfranco Fini il 14 dicembre del 2010, quando il governo Berlusconi la spuntò per tre voti mentre in giro per Roma succedeva di tutto.

 

Ma alla base c’è probabilmente un equivoco: nessuno di questi leader ha capito per tempo che sarebbe stato impossibile – forse persino ingiusto, ma la riconoscenza non è una categoria della politica – prendersi il centrodestra contro Berlusconi, al termine di uno scontro frontale in Parlamento e sui giornali. Non solo per ragioni di efficacia nella pugna (anche per quelle) bensì per motivi politici a cui sono seguiti errori strategici. Il dominio esercitato da Berlusconi nel centrodestra degli ultimi vent’anni – che di fatto ha creato – e il suo rapporto privilegiato con l’elettorato sono un fatto storico che dovrebbe spingere i suoi aspiranti successori, piaccia loro o no, a trattarlo pubblicamente non come un avversario bensì come un venerabile santino, un totem, un padre nobile da cui ottenere quell’investitura di cui non si può fare a meno. Attenzione, però: ottenere l’investitura. Non sperarci, non aspettarla: renderla inevitabile. Qui non si parla di mettersi in coda: si parla di giocare la propria battaglia ma su un piano diverso. Alla Frank Underwood, per capirci: ma se Alfano e Fitto non hanno visto “House of Cards” possono dare un’occhiata a cosa è successo dentro la Lega nord.

 

[**Video_box_2**]Che qualche anno fa nella Lega nord ci fosse una fronda critica con Umberto Bossi e la sua gestione del partito non è un segreto; che ci fosse una classe dirigente emergente, meno rozza e folcloristica della precedente, è stato raccontato da molti bravi cronisti. Nessuno di questi leader emergenti ha pensato però che fosse possibile prendersi la Lega contro Bossi, facendogli la guerra sui giornali e in Parlamento: neanche nei momenti di maggiore difficoltà politica e giudiziaria di Bossi e i suoi. Gliel’hanno fatta la guerra, eccome: ma è stata una guerra di posizionamento morbida e sotterranea, portata avanti coccolando Bossi con una mano e prendendo a cazzotti i suoi alleati più vicini con l’altra, capendo quando era il caso di acquattarsi e quando di venir fuori, tirando la corda fischiettando e facendo attenzione a non strapparla mai, fino a ottenere con le buone o con le cattive se non un’investitura quantomeno una resa silenziosa.

 

La drammatizzazione isterica delle rese-dei-conti, dei vertici e delle dimissioni di massa non aiuterà chi vuole costruire un centrodestra che sappia fare a meno di Silvio Berlusconi: se Raffaele Fitto o chiunque altro voglia diventarne il leader pensano di farcela a colpi di incazzosi lanci di agenzia, rischiano di svegliarsi con un sacco di articoli nella rassegna stampa e pochissimi voti. Se poi pensano di usare il patto del Nazareno per colpire indirettamente Berlusconi, rischiano di cascare male e ritrovarsi ininfluenti ostaggi della destra di Salvini – che potrà occasionalmente prendere anche un discreto numero di voti ma non governerà mai il paese. Invece proprio dai voti bisognerebbe partire, prima che dai talk-show: dalle elezioni regionali del 2015, per essere ancora più concreti. Prendersi il partito prima di chiederlo, creare un nuovo gruppo dirigente invece di aspettare che Berlusconi se lo inventi pur di togliere di mezzo l’attuale: mettere il vecchio centrodestra davanti al fatto compiuto dell’esistenza di un nuovo centrodestra, senza maiuscole. Vasto programma, certo. Fitto ce l’ha il quid?