Ecofagia

Guido Vitiello

Sono sceso dal pendolino di Foucault, una tratta più breve della Napoli-Portici, e ancora non so bene che cosa ho visto dal finestrino. A colpo d’occhio il paesaggio, in questo “Numero zero”, era lo stesso del “Pendolo”.

Sono sceso dal pendolino di Foucault, una tratta più breve della Napoli-Portici, e ancora non so bene che cosa ho visto dal finestrino. A colpo d’occhio il paesaggio, in questo “Numero zero”, era lo stesso del “Pendolo” – la redazione squinternata di intellettuali déclassés e di ambiziosi delusi, il grande complotto, il mitomane assassinato, le liste vertiginose e petulanti, il riciclaggio forsennato di bustine di Minerva. E allora com’è che non ho l’impressione di aver letto un romanzo? Intendo: quella cosa con i personaggi, gli ambienti, lo stile, una trama di qualche interesse? Un romanzo dove manca tutto questo è come la casa in via dei Matti della canzone per bambini, senza soffitto e senza cucina, dove non c’era il letto né il pavimento, che Sergio Endrigo collocò opportunamente, o profeticamente, proprio al numero zero. In un impeto di suicidio commerciale Bompiani avrebbe potuto capovolgere la celebre formula di turlupinatura del lettore (“un saggio che si legge come un romanzo”) e aggiungere, in una fascetta editoriale: un romanzo che si legge come un saggio. Ma neppure sarebbe stato vero. Non c’è una tesi, una lezione riconoscibile nel libro, se ne possono cavare diverse e confliggenti, ma non per virtù di ambiguità letteraria, per vizio di accozzaglia culinaria. Eco dice che il suo è un Arcimboldo, modo appena velato per dire minestrone, e segnalo a chi vorrà occuparsene una chiave di lettura promettente: in breve, “Numero zero” è l’atto finale di autocannibalismo di un autore che, fagocitato lo scibile umano, comincia a divorare pezzo per pezzo se stesso e la sua opera come il contadino affamato di Dario Fo. Siccome lo chef è “a vista” – pare sia la regola, nei ristoranti pretenziosi – la preparazione della zuppa autofaga non è un gran bello spettacolo.

 

Distogliamoci perciò dal cuoco, alziamo lo sguardo dal piatto e diamo un’occhiata agli altri commensali. La discussione è viva, altroché. E’ tutto un gran parlare di cattiva informazione, di dossieraggio, di macchina del fango, gli ingredienti principali di “Numero zero” (già sento la voce sciagurata che si leverà dal mormorio per dire: “Questo piatto andrebbe servito nelle scuole di giornalismo!”). E poi si discute di Mussolini, e del fascismo perenne, e di Gladio, e di Berlusconi, e di Gelli, tutti presenti in un modo o nell’altro nel minestrone. Noto una cosa strana, in sala: le anticipazioni giornalistiche di “Numero zero”, anche quelle di mesi fa, sono pressoché identiche alle recensioni. Il libro è tale che, ex ante ed ex post, se ne possono dire esattamente le stesse cose. Dunque leggerlo non serviva? L’essenziale era nel menù? O forse il piatto era così discreto da attraversare inavvertito l’apparato digerente? E per finire dove, poi? Già che siamo in un ristorante citazionista (la casa di via dei Matti, oltretutto, non aveva neppure il vasino), ripenso alla cena sui gabinetti del film di Buñuel, ma scarto subito l’evocazione; più insistente è il ricordo di un altro ristorante, in un film dei Monty Python, dove un cameriere porta in tavola a una coppia annoiata di mezza età un menù di argomenti di cui parlare: nomi di filosofi famosi, sintesi delle loro teorie. E se “Numero zero” offrisse proprio questo, una rassegna di bandoli di conversazione? Anche lo chef, nei suoi giri tra i commensali (è stato al tavolo di Scalfari, di Saviano, di Mieli), sembra considerarlo così, quasi scordandosi che dovrebbe trattarsi, grosso modo, di un romanzo. Ma la catena delle citazioni non si può fermare a comando, e così mi ricordo di un’altra cena ancora. Un dialogo tra un cameriere e un cliente, immaginato nel 1986 da Piergiorgio Bellocchio. Il cameriere porta in tavola la specialità della casa, la Zuppa Medievale, ossia “Il nome della rosa”; una zuppa in cui non conta il sapore o l’odore, preoccupazioni da affamati ingenui, ma la possibilità di entrare in una conversazione infinita innescata dalla zuppa medesima. Cominciava così: “Cameriere, questa zuppa è immangiabile”.

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