Thomas Jordan, presidente della Banca centrale svizzera

Il re del franco contro tutti

Chi è il banchiere che ha spaccato l'orologio della finanza svizzera

Ugo Bertone

I super-ricchi non credono più nel rigore elvetico. Ubs e Credit Suisse in collera con il governatore Jordan.

Milano. “Stamani, nel giro di un paio d’ore, ho già ricevuto sei telefonate da parte di clienti con depositi miliardari – rivela, un po’ frastornato, Simon Smiles, responsabile della gestione dei grandi patrimoni di Ubs – Tutti mi hanno chiesto la stessa cosa: spostare tutto in dollari, perché della Svizzera non si fidano più”. Il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, reagisce così alla decisione, a sorpresa, di sganciare il franco svizzero dal rapporto fisso con l’euro. “Non ne sapevamo niente. Eppure, la regola è di informarci prima di una mossa sui cambi”. Ciò spiega i ribassi a doppia cifra delle banche elvetiche Ubs e Credit Suisse alla Borsa di Zurigo, che in due giorni ha perso il 14,6 per cento. Non gode perciò di grande popolarità Thomas Jordan, il banchiere centrale fino a ieri sconosciuto al pubblico dentro e fuori i confini della confederazione: una laurea in patria, master a Harvard poi, dal 1997, impegnato in una lenta e sicura scalata fino ai vertici della Snb che governa il franco. Un banchiere svizzero che più svizzero non si può: sobrio, misurato, mai una parola fuori luogo. Almeno fino a una ventina di giorni fa quando Jordan, intervistato dalla tv elvetica, ha dichiarato: “La difesa della soglia del cambio per noi è vitale e irrinunciabile”. Al contrario, nella mattina di giovedì, è arrivata la “pugnalata alle spalle”, come l’hanno definita i grandi broker del mercato valutario travolti dal rimbalzo del 30 per cento e più del franco sull’euro. Perché una menzogna così poco “svizzera”? Forse, suggerisce il Guardian, il banchiere s’è ricordato di avere preso la laurea a Berna, nell’università dove ha studiato John le Carré, maestro del doppio gioco. Oppure, Jordan s’è ricordato dell’amara fine del suo predecessore, Philipp Hildebrandt, costretto alle dimissioni nel 2012 dopo una fortunata speculazione sul dollaro della moglie. Meglio tacere fino all’ultimo, devono essersi detti herr Jordan e i due colleghi del direttorio, per evitare fughe di notizie nel rispetto della tradizione dei banchieri di una volta, prima che diventasse di moda lasciar correre la lingua: “Prima prendi la decisione – recitava il primo precetto del rapporto Radcliffe sulle buone pratiche della gestione monetaria – poi la annunci”.

 

Al di là delle modalità scelte da Jordan, che ha lasciato all’oscuro imprenditori e gli gnomi di Ubs e Credit Suisse, oggi furibondi, occorre fare i conti con una mossa forte “che andava presa adesso – ha precisato il banchiere – perché tra sei mesi o un anno sarebbe stato molto più difficile”. Con il Quantitative easing europeo alle porte – l’annuncio il 22 gennaio – la Snb, che ha accumulato 500 miliardi di perdite nel 2014 per difendere il rapporto di cambio con l’Europa, si sarebbe sottoposta a un’emorragia  delle riserve, a lungo andare insostenibile. Di qui la scelta di muoversi senza indugi, sfruttando appieno le prerogative di una Banca centrale indipendente. Che differenza con la cautela che caratterizza la Bce. Proprio il giorno prima il blitz di Berna, ha incassato il parere favorevole dell’Avvocato generale della Corte di giustizia europea sulla legittimità dell’Omt, la possibilità per la Banca di Francoforte di effettuare acquisti discrezionali di titoli pubblici di uno stato in difficoltà. Ma il piano, varato nell’estate del 2012 per dar seguito all’impegno di Draghi è ancora nel limbo. La Corte di giustizia Ue si esprimerà definitivamente solo nell’autunno 2015, dopodiché il caso ritornerà all’esame della Corte costituzionale tedesca, che si prenderà qualche altro mese.

 

[**Video_box_2**]Quattro anni per decidere di uno strumento di pronto soccorso danno da pensare. Sotto questo profilo il prossimo Qe non nasce sotto una buona stella. “Ma i due programmi sono molto diversi – dice l’economista Giacomo Vaciago – Con l’Omt la Bce operava a supporto dei governi, nell’ambito di un’operazione di salvataggio che chiamava in causa la responsabilità dei politici”. E il Qe? “In questo caso la Bce opera nell’ambito del suo mandato che è di mantenere l’inflazione poco sotto il 2 per cento, obiettivo oggi molto lontano, con grave danno per l’occupazione”. Stavolta Mario Draghi non deve chiedere il permesso.  Né ai politici, né alla minoranza dei falchi, capitanata da Jens Weidmann. La Bce, dunque, si accinge a diventare adulta e più autonoma, sulla falsariga della Federal Reserve o della stessa Banca svizzera che suscita una punta di invidia presso la Bundesbank, senz’altro prova nostalgia per il vecchio marco che mai avrebbe subìto l’onta di un tracollo verso la valuta scudocrociata. Ma c’è anche un’altra lezione in arrivo da Berna: una Banca centrale può fare per un po’ da battistrada e da guida all’economia reale. Ma se, come nel caso del gancio franco/euro di questi anni, si vuol difendere un valore fittizio drogato da alchimie monetarie, prima o poi l’equilibrio si spezza. E l’economia si vendica.  

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