“I consiglieri militari” di Obama

Per 300 soldati americani assediati in una base irachena la prima linea è sempre più vicina

Daniele Raineri

Un gruppo di dissidenti e attivisti che vive e opera in clandestinità a Raqqa sostiene che ieri le forze speciali americane hanno tentato uno sbarco con elicotteri in due punti della città e dei suoi paraggi.

Un gruppo di dissidenti e attivisti che vive e opera in clandestinità a Raqqa sostiene che ieri le forze speciali americane hanno tentato uno sbarco con elicotteri in due punti della città e dei suoi paraggi. Raqqa è la città siriana controllata dallo Stato islamico, e si pensa che lì siano tenuti prigionieri un ostaggio americano e un pilota giordano precipitato poco lontano con il suo aereo F-16 il 24 dicembre. La notizia non è confermata, come quasi tutto ciò che riguarda le vicende nel nord della Siria.
Il raid delle forze speciali è fallito secondo la testimonianza (in passato lo stesso gruppo ha dato resoconti affidabili), perché i soldati hanno incontrato un fuoco troppo intenso da parte degli uomini dello Stato islamico. E’ stato preceduto da bombardamenti durissimi e da un traffico aereo insolito sulla zona (circolano alcune foto dei bombardamenti). All’inizio di luglio le forze speciali americane avevano tentato di liberare alcuni ostaggi con un raid simile in una raffineria vicino Raqqa, trasformata in un complesso militare con prigione annessa (il nome del campo è “Osama bin Laden”), ma i prigionieri erano già stati trasferiti altrove e molti di loro sono poi stati uccisi a scopo dimostrativo davanti a una telecamera.

 

Sull’altro fronte di questa guerra, in Iraq, si sta creando una situazione pericolosa per una parte delle truppe americane mandate dall’Amministrazione Obama. Circa trecento “consiglieri militari” di stanza nella base aerea di Ayn al Asad, nella provincia di Anbar, sono colpiti da un fuoco costante di artiglieria e razzi – che loro definiscono “molto impreciso, la maggiora parte dei colpi finisce fuori dal perimetro della base”. Lo Stato islamico combatte a circa dieci chilometri di distanza e nelle ultime settimane sono stati necessari 13 bombardamenti aerei per tenerlo a distanza.

 

Quella zona ha un significato particolare che risale agli anni della grande presenza americana in Iraq. Nel 2006 un rapporto dell’intelligence militare finito in mano al Washington Post la dichiarava completamente perduta e in mano – tranne eccezioni – all’insurrezione, guidata da al Qaida in Iraq (il gruppo da cui è nato lo Stato islamico). Da lì, tuttavia, nacque quel movimento di resistenza locale chiamato al Sahwa, il Risveglio, che contribuì molto a rovesciare la situazione a favore degli americani e del governo centrale di Baghdad. Nel 2007, l’allora presidente George W. Bush atterrò ad Asad (che è un aeroporto militare) per dire: “Qui ad Anbar si possono vedere in prima persona i miglioramenti enormi che arrivano quando gli iracheni si sentono più sicuri. Si possono vedere i sunniti che prima combattevano fianco a fianco con al Qaida contro i soldati della Coalizione combattere ora al fianco della Coalizione contro al Qaida”. Dopo di che, strinse la mano allo sceicco Sattar Abu Risha, capo del Risveglio. Che otto anni dopo lo stesso aeroporto sia colpito dall’artiglieria dei jihadisti e sia quasi in stato d’assedio è un fatto con valore simbolico – come pure che Abu Risha sia stato ammazzato l’anno dopo da un attentatore suicida, e la sua foto assieme con Bush sparsa sui forum jihadisti come monito per chi collabora con “assalibiyin”, “i crociati”.

 

I trecento di Asad fanno parte di un contingente di circa duemila americani che presto salirà a tremila. Il loro ruolo di consiglieri e addestratori appare ogni giorno più ambiguo e “da prima linea” (sono arrivati via elicottero di notte, per minimizzare i rischi). Cosa dobbiamo fare se lo Stato islamico tenta l’assalto, chiede uno di loro in un pezzo di ieri del Washington Post, combattere o lasciare il campo perché sono gli iracheni che devono occuparsene?

 

[**Video_box_2**]Per ora il ruolo straniero in Iraq è limitato, se così si può dire, ai bombardamenti, alla raccolta di intelligence e all’addestramento. Con l’aumentare del numero dei soldati e il loro trasferimento discreto verso basi avanzate, la visione dell’Amministrazione americana – che in Iraq vuole evitare il coinvolgimento dei militari a terra – potrebbe diventare una finzione fragile. Lo Stato islamico cerca lo scontro diretto come succedeva negli anni scorsi e a giudicare da quello che scrivono i simpatizzanti su internet un morto americano sarebbe una vittoria per la sua propaganda.

 

I militari stranieri nel frattempo continuano l’addestramento di massa dei volontari iracheni. Secondo i dati del New York Times, Baghdad punta a far uscire da quei corsi “cinquemila nuovi soldati ogni  sei settimane”, ma sono giudicati inaffidabili.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)