San Buzzi e i 40 ladroni

Marianna Rizzini

La vera storia di una organizzazione benemerita, sociale, progressista che nasce nella crema della solidarietà e finisce con l’accusa di mafia. E del suo fondatore.

"Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale”, dice la strofa di De André (Fabrizio) nella canzone dedicata a Pier Paolo Pasolini. Ed è lì, la strofa. Ancora campeggia a destra in alto sulla homepage del sito della 29 giugno, cooperativa di Salvatore Buzzi, l’uomo al centro del romanzo nero della cosiddetta “mafia capitale”, diavolo o angelo a seconda dell’occhio e del momento. Apri una pagina della storia di Buzzi tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, e trovi un salvatore di detenuti, ex detenuto lui stesso. E, a leggere l’articolo scritto da Miriam Mafai su Repubblica, in occasione del convegno da cui tutto ebbe origine – convegno in carcere su sorte e prospettive fuori dal carcere, 29 giugno 1984, presenti l’allora sindaco di Roma Ugo Vetere, l’allora Guardasigilli Mino Martinazzoli e l’allora direttore del Popolo Giovanni Galloni – pare quasi di intravedere un Fra’ Cristoforo che si riscatta con le opere dal passato impetuoso di duellante (idea della cooperativa per il recupero di chi rischia di perdersi a fine pena) o addirittura un Raskolnikov che passa attraverso il delitto, il castigo e la presa di coscienza: “Circola più imbarazzo in noi che tra poco usciremo da questo luogo di pena”, scrive Mafai, che ha appena descritto Buzzi come un “giovanotto bruno e barbuto”, “che in loro che sono destinati a restarci per gran parte della loro vita… noi osservatori curiosi e come turbati di vedere gli altri, assassini e rapinatori così simili a noi, privi di quei segni sul viso che dovrebbero farli irrimediabilmente ‘diversi’ e ‘separati’”. Molto ne avrebbero parlato, i giornalisti imbarazzati, di quel convegno-avanguardia di civiltà ante legge Gozzini (che è del 1986), e avrebbero parlato del plauso dato all’iniziativa da Stefano Rodotà, da Leda Colombini, da don Luigi di Liegro e da Laura Ingrao, questi ultimi anche numi tutelari all’atto di fondazione della “29 giugno”, creatura di quel Salvatore Buzzi visto allora come il meraviglioso redento, anche laureato in carcere. Un redento uscito di galera a fine anni Ottanta, dopo una condanna per omicidio. E qui, con la lente deformante dell’oggi, appare deformata pure la sagoma di Buzzi, uomo massiccio con gli occhiali, il neo e il naso da cattivo da film noir, come dice il giornalista Carmine Fotia, autore di “Italianera”, romanzo di fiction che prefigurava nella fiction le mosse da “giro Carminati”. E tutto, ora, sembra avere un suo posto nella sceneggiatura del grande cosiddetto “romanzo criminale” romano, tanto più che lo scrittore ed ex pm Giancarlo De Cataldo (storia nella storia) non soltanto ha scritto il libro “Romanzo criminale”, quello da cui tutti i paragoni scaturiscono, ma ha pure recensito, un anno fa, per la rivista della “29 giugno”, il film del fratelli Taviani in cui recitano carcerati veri (“Cesare deve morire”, Orso d’oro a Berlino nel 2012, uno Shakespeare dentro e dietro le sbarre, girato a Rebibbia con la mediazione e il supporto logistico della “29 giugno”, pioniera nell’organizzazione di corsi di teatro per detenuti).

 

Con la lente dell’oggi, l’angelo caduto e risorto appare sì un diavolo, ma ex post, e cioè dopo l’inchiesta, dopo le intercettazioni, dopo che tutti hanno detto che “era impossibile immaginare l’esistenza” di un furfante redivivo nell’uomo recuperato e che recuperava ex scarti della società, gente a un passo dalla perdizione definitiva – figurarsi poter immaginare il male con la “M” maiuscola (le buste, la segretaria che imbusta, le mazzette, gli appalti, le telefonate, gli incontri con chiunque, persino con Gianni Letta e con il prefetto) nel cuore di quell’associazione “perbene” per definizione: per gli immigrati, per il verde, per i disabili, per i rifugiati, contro la sporcizia (“emergenza maiali a Roma, accorre la 29 giugno!”, narravano le cronache da piccolo cinegiornale Luce cartaceo sulla suddetta rivista “29 giugno”, cronache anche giustamente orgogliose di quelle squadre che ripulivano le strade invase da topi, maiali, avanzi di cassonetto, cartacce e frigoriferi sventrati). Impossibile che il romanzo del Buzzi buono potesse contenere il romanzo del Buzzi cattivo, diavolo-sodale del “nero” Massimo Carminati, seconda gamba del duetto perfetto della presunta banda truffatrice nonché, come dice il pool di Giuseppe Pignatone, pure un po’ mafiosa, ma mafiosa a modo suo: roba di appalti e mazzette e politici d’ogni colore e traffici loschissimi tra aule comunali, distributori di benzina e bar dell’Eur. Una tragedia che nasce dalla più edificante delle storie “comuni” per “gente speciale”: dunque trasecola il sindaco Ignazio Marino (“non potevo sapere che Buzzi era un criminale”), trasecola il neopresidente Legacoop Mauro Lusetti (“mica siamo un’associazione investigativa”, ha detto alla Stampa), trasecola il ministro ed ex vertice Legacoop Giuliano Poletti (“Buzzi mi era apparso persona perbene”), addolorato per la foto che lo ritrae a cena con Buzzi e altri, normale amministrazione per un presidente Legacoop, e per la  rampogna robespierriana di Roberto Saviano su Repubblica (del genere: tu non potevi non sapere).

 

E tutto si può dire, a questo punto: che il cattivo di oggi non era mai stato davvero un redento; che è stato un redento ma non un salvato; che la redenzione è impossibile, che “il male esiste e bisogna farci i conti” e che “nessuna forma giuridica ti mette al riparo dal male”, come dice al Foglio Johnny Dotti, ex presidente del gruppo cooperativo Cgm e presidente di Welfare Italia. Oppure che la tentazione è come sempre dietro l’angolo, solo che se sei a capo di una cooperativa di quel tipo (come dicono a Roma, e non per offendere, “di poracci che lavorano per poracci”), non puoi certo fare come Oscar Wilde, non puoi dire che l’unico modo per liberarsi di una tentazione è cedere. E infatti, in questo quadro di diavoli e acque sante e presunte mafie dalla radice “callejera”, don Luigi Rigoldi, autorità del recupero detenuti nel carcere minorile Beccaria, dice al Foglio che lui “non è nessuno per giudicare l’uomo”, e che “oltretutto, in quella cooperativa, è stato fatto anche del bene”, ma che “la capacità seduttiva del denaro e del potere, a un certo punto, pur senza offuscare completamente la missione generale, possono aver teso una trappola”. E dice anche, don Rigoldi, “che, se si opera in questo campo, non si può pensare di avere una sicurezza economica alle spalle: tutto quello che si ottiene deve andare a chi ha bisogno”.

 

Ma nessuno, neppure don Rigoldi, toglie alla 29 giugno, almeno fino all’esplosione di intercettazioni, supposizioni, incubi e trame, la patente dell’organismo che “fa del bene”. E la storia si complica prima di tutto agli occhi di chi Buzzi lo vedeva davvero “angelo”, specchiandosi in lui ma in realtà vedendo se stesso. Capita così, nel venerdì terribile post-deflagrazione delle notizie su “mafia capitale”, che un ex detenuto sdentato, un Pirata dei Caraibi grato e dolente, dica davanti alla porta sbarrata della cooperativa che lui quel Buzzi “lo abbraccia forte”, e spera “che riceva il bene che ha dato”. E capita, tra le madri in attesa dei figli davanti alla scuola elementare di via Pomona, stessa via della cooperativa 29 giugno, che una di loro si metta a dire “che suo marito disoccupato, senza la cooperativa, proprio non ce la faceva”, e che “quelli almeno pagano gli stipendi, e pure la mini-liquidazione”. Normale che sia così, ma anche no: il dirigente della 29 giugno che caccia via gli intrusi ha gli occhi lucidi, ma non perché pensa, come gli altri, “che Buzzi non abbia fatto quel che dicono che ha fatto”. “Se l’ha fatto si vedrà”, dice, ma “io adesso mi sento come un bambino che si alza la mattina e scopre che gli hanno ucciso il padre e la madre, tutti e due d’un colpo”. Poi si ritira dietro la porta di ferro, dove la “riunione” preparatoria a quella globale del sabato sta per cominciare. Fuori, tra le macchine parcheggiate, e persino al bar di via di Pietralata, decorato per Natale con strane luci rosse da sexy-shop, tra foto di Marilyn Monroe e di poliziotti in divisa, i lavoratori della coop dicono che ora “la paura” è “per gennaio e febbraio, se non arriva lo stipendio”, ma è anche “paura di sprecare la seconda possibilità”, come dice Katiuscia, madre single di due figli “perché un tizio m’ha lasciata”, convinta che “chi viene dalla strada” capisca Buzzi. “Ci chiamano e noi arriviamo a far pulizia, e chi la fa, sennò? Ma li ha visti i maiali l’anno scorso?”, dice un operatore ecologico “che qui ha trovato la famiglia”. Ma l’amarcord non spiega nulla: “Chi era Buzzi? Quando ha preso quella strada?”, si domandano gli osservatori e i partecipanti ai talk-show, mischiando nella deformazione del “caso Roma” la realtà e la fantasia: Buzzi da giovane “ha ucciso una prostituta”, si dice il giovedì. No, “ha ucciso un complice che lo ricattava” con 34 coltellate, correggono il giorno dopo, dal Fatto quotidiano, Salvatore Cannavò e Carlo Tecce. E piano piano, dal racconto di chi lo conosceva, e dalle vecchie pagine del Messaggero e della Stampa, emerge la storia per come è stata raccontata allora: il ragazzo Buzzi di famiglia piccolo borghese che vive ancora con i genitori e sogna il macchinone a due passi dalla Magliana (“la banda!, la banda!”, è il collegamento istintivo ma sbagliato fatto da tutti noi, a questo punto drogati di Romanzi criminali); il ragazzo Buzzi che trova impiego in banca, e finalmente il macchinone ce l’ha (strane operazioni con assegni, primi crimini). Il ragazzo Buzzi che, quasi quasi fosse davvero un personaggio di Dostoevskij, uccide non la vecchia usuraia ma l’ex sodale ricattatore, e poi arriva in carcere, prima Regina Coeli poi Rebibbia, e studia Lettere con profitto e a tempo di record, per poi essere graziato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

 

Non soltanto Miriam Mafai parla di lui. Negli anni successivi alla sua uscita dal carcere, come segnala Alessandro Fulloni sul Corriere della Sera, il Buzzi è già considerato l’angelo dei detenuti, e consegna l’autodescrizione di sé a Marco Bellini, per la rivista Una città, nel dicembre del 1994. Parla della galera e della recitazione, Buzzi, come farà Aniello Arena, attore-detenuto del film “Reality” di Matteo Garrone, quasi vent’anni dopo, nell’autobiografia “L’aria è ottima (quando riesce a passare)”. Ed è un’altra storia nella storia: il teatro in carcere, i Taviani e Garrone, con De Cataldo, autore di romanzi criminali, che recensisce il romanzo criminale vero dei redenti attraverso Shakespeare. E se Arena, attore ergastolano, trova, nel carcere di Volterra, la salvezza nei riti di scena che lo costringono a governare la rabbia che gli fa sbattere la testa contro il muro nei giorni tutti uguali del “fine pena mai”, Buzzi, a Rebibbia, trova nel teatro un antidoto all’angoscia dei passi lenti: “Un percorso di 50 metri, 100 al massimo, avanti e indietro, avanti e indietro… la velocità in carcere è a passo d’uomo, e te ne accorgi quando esci dopo tanti anni: a me andare ai 40 all’ora faceva impressione, mi faceva paura”, diceva a Bellini, raccontando anche le proteste per ottenere il “permesso” del sesso in carcere, e gli amori platonici urlati da una cella all’altra, tra ala maschile e ala femminile, amori anche epistolari, perché “un amico ha un’amica” a cui puoi scrivere là dentro, ma poi “si arriva alla famosa verifica: ti sei fatto l’immagine di una persona che non hai mai visto e finalmente la vedi e magari sei deluso”, diceva Buzzi. Al Buzzi detenuto, il peggio del peggio era parso il carcere giudiziale, quello di coloro in attesa di processo (come lui oggi). La genesi della cooperativa la racconta in prima persona, sul sito della “29 giugno”, qualche anno fa. “Tentare di fare un convegno all’interno del carcere”, era stata l’idea originaria, ai tempi in cui in carcere nessuno faceva convegni. Un “vicerè” tra le guardie si era detto favorevole. E, racconta al Foglio un politico dell’epoca, “Mino Martinazzoli aveva dato il via libera”. A metà degli anni Ottanta si fa dunque, a Rebibbia, una specie di riunione straordinaria del consiglio della V circoscrizione. Tema: reinserimento dei detenuti. Nasce l’idea della cooperativa. Quando Buzzi esce, la “29 giugno” ha già un nome. Si allarga piano piano. Nessuno presente allora e negli anni successivi dice di aver notato qualcosa di strano.

 

[**Video_box_2**]E allora la storia si complica ulteriormente adesso, in Campidoglio, negli occhi imbarazzati di chi Buzzi lo conosceva (ma in veste di “buono”) e in quelli increduli di chi una mattina, vedendo la sua foto, ha pensato “ma allora era Buzzi” quel signore sconosciuto ai neofiti del Consiglio comunale, quello con il volto roccioso “che se ne stava lì durante le sedute, scambiando ogni tanto due parole con qualcuno” (così dice Riccardo Magi, consigliere radicale e presidente di Radicali italiani in sciopero della fame per la chiusura di un centro di accoglienza per rom senza finestre e senza cucine, tipo la casa senza soffitta della canzone di Sergio Endrigo, un classico per bambini negli anni Settanta – e però questo centro rom non c’entra con l’inchiesta del romanzo criminale odierno). Non sapevano chi fosse, Buzzi, i neofiti, dicono. E una certa capacità mimetica dev’essere stata caratteristica del pur fisicamente massiccio capo della 29 giugno anche dieci anni fa, se è vero che Walter Verini, ex capo della segreteria politica del Walter Veltroni sindaco, ha dovuto riguardare le sue foto due o tre volte, per “fare mente locale”, per collegare nome e volto del presidente della cooperativa nata e cresciuta in anni in cui le associazioni per il recupero dei detenuti (e di altre categorie disagiate: ex tossicodipendenti, vittime della tratta, disabili) suscitavano plauso unanime e sostegno nella sinistra tutta. Erano anni di “aumento della spesa sociale per questo tipo di iniziative”, dice Verini. Anche i municipi affidavano lavori alle coop di quella natura, e senza particolari procedure, proprio per la natura delle stesse (“categoria B”, era l’etichetta giuridico-sociale per la cooperazione sociale). C’erano oltretutto, nel caso della 29 giugno, i nomi dei fondatori o propulsori a dare lustro della “buona azione”: Di Liegro, Colombini, Laura Ingrao. Dice Verini: “La cooperativa 29 giugno aveva questa allure di cooperativa sociale, e in questa idea ampia di cooperazione sociale si collocava anche il rapporto fisiologico con la sinistra”. Poi, dice Verini, è cambiato un mondo, e nel “disorientamento del mondo cooperativo, all’arrivo della destra in comune, può essere successo altro”. “C’erano altri referenti”, dice, “una nuova classe dirigente che non si aspettava di vincere, magari non così attenta a selezionare. Ma il disorientamento può spiegare lo scendere a patti scellerati con il giro del cosiddetto ‘nero’ Carminati di cui ora leggiamo nelle cronache?”. In un momento di caos, “forse non si è andati per il sottile”, dice Verini, che parla anche “di una parte del Pd, diviso in correnti e tribù, ottenebrato dalla lotta per le preferenze: un combinato disposto che può aver favorito il salto di Buzzi verso Massimo Carminati”. Eppure tutto si ingarbuglia nel momento stesso in cui si parla di no-profit, a volte un alibi per sentirsi caritatevoli e tranquilli. Buzzi, fino a un anno fa, dava sicurezza, tanto che Marino voleva destinare il suo stipendio all’acquisto di obbligazioni della “29 giugno” (ed era il Buzzi iper-garantista che inviava al Tempo lettere accorate in difesa di Claudio Scajola. “Il garantismo è da sempre la mia stella polare, soprattutto in presenza di carcerazione preventiva”, scriveva Buzzi, dichiarandosi al contempo elettore del centrosinistra e iscritto al Pd).
Nemesi ha voluto che andasse a finire così, con un’altra piccola storia nella storia: Pino Pelosi, condannato a suo tempo per l’assassinio di Pasolini, al centro di successive ricostruzioni anche misteriose e revisioniste del delitto, ora libero, è uno dei lavoratori-veterani della “29 giugno” che dal suo sito omaggia Pasolini. E mentre le intercettazioni continuano a sgorgare, minaccia perenne di “qualcosa d’altro che si deve ancora scoprire”, sulla stralunata homepage della cooperativa si produce un capolavoro di fissità: nessuno, nel day after del pasticciaccio, ha pensato di togliere le foto serene dei lavoratori in divisa, paletta e ramazza in mano, tutti disposti coreograficamente e col sorriso, come prima di un’audizione per “Chorus Line”. Un’immagine che diventa messaggio nella bottiglia per i posteri, ricordo dolce del “come eravamo”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.