Veronica Panarello, la madre del piccolo Loris (foto LaPresse)

Noi, feroci

Annalena Benini

Vogliamo che non sia successo, che non succeda mai più, chiudiamo gli occhi davanti ai titoli di giornale. Vogliamo un nome per l’orrore di Loris, ma il nome è scritto addosso all’umanità e fa paura.

Vogliamo che non sia vero, che non sia stata la madre a legare i polsi al suo bambino di otto anni, a strangolarlo e buttarlo nel canale. Vogliamo che sia vero, e che lei confessi l’omicidio, per liberarci dalla paura dell’uomo nero che si aggira davanti alle scuole in cerca dei nostri figli. Vogliamo che non sia successo, che non succeda mai più (ed è appena accaduto di nuovo: un bimbo di cinque anni e sua madre sono stati uccisi dal padre uno dopo l’altro a colpi di pistola), chiudiamo gli occhi davanti ai titoli di giornale, giriamo le pagine e piangiamo questo bambino che ci saluta dalle foto e non ha potuto né difendersi né fuggire, ma intanto si è già scatenata la ferocia. E’ la ferocia di quelli che guardano, sparano le luci in faccia e descrivono le urla e i pianti del fratellino più piccolo dentro la casa di Loris, la ferocia della descrizione del corpo ferito di un bambino e l’insinuazione di violenze sessuali, la ferocia di chi commenta e chiede che “a quella madre schifosa” venga fatto quello che ha fatto a suo figlio e poi, subito placato dallo sfogo rabbioso, scrive: piccolo angelo, riposa in pace. La ferocia degli altri detenuti che le gridano: devi morire. La ferocia siamo noi, madri, padri, uomini e donne. Se l’accusa di omicidio fosse fondata sulla verità, oltre che su gravi indizi, se quella donna giovane e con lo sguardo perduto che ha cambiato troppe volte versione, troppe volte ha mentito, fosse davvero l’assassina di suo figlio, fosse tornata a casa quella mattina per ucciderlo, sarebbe il buco nero più profondo, il confine estremo e indicibile della ferocia. Sarebbe una cosa che non assomiglia a niente, nemmeno al raptus, nemmeno a ciò che si ripete da giorni, per trovargli un nome che ci turbi e ci rassicuri insieme: “Come Cogne, come la Franzoni”. Una madre che finge di avere accompagnato a scuola suo figlio, finge di cercarlo all’uscita senza parlare con le maestre, finge di non essere mai passata per la strada accanto a quel canale, torna a casa due volte e infine va a un corso di cucina su al castello di Donnafugata, nasconde lo zaino del suo bambino: se fosse vero sarebbe più di tutto il male del mondo, sarebbe un regolamento di conti con un figlio, l’accanimento su un bambino con i polsi legati, seguìto dal tentativo folle e freddo di stare dentro quell’incubo come una vittima, come una madre disperata.

 

Sono sei su dieci: su dieci bambini uccisi in Italia, per sei volte è stata la mamma. Eppure non c’è un nome, oltre a quello di Medea, per questa incommensurabile ferocia. Mentre cerchiamo di dare un nome a tutto, di trovare una definizione e un’aggravante, mentre parliamo sempre di femminicidio e lo trasformiamo in un discorso politico, guardiamo questi bambini e, dopo aver scatenato la pornografia dei commenti, ci plachiamo e diciamo: è stato un raptus. Anche quando non è stato un raptus. Ma non c’è un nome, perché non ha nome la ferocia degli esseri umani, la sopraffazione sul più piccolo, sul più debole. Quella cosa mostruosa, impossibile da guardare, da indagare, di una madre che uccide suo figlio, di un uomo che uccide una donna, del più forte che uccide l’inerme, e prima di ucciderlo lo tormenta, gli mostra l’orrore, si accanisce, cerca qualcosa per legarlo stretto, si trasforma lui stesso, essere umano dotato di intelligenza, discernimento, amore, nell’orrore. Non c’è niente di più terribile di questo orrore, e vogliamo dire tutti: non può essere, era sua madre, lo aveva vestito per la scuola quella mattina, gli aveva preparato lo zaino, gli aveva dato la vita. E allo stesso tempo vogliamo dire: è stata lei, è stato un raptus, “ora può anche morire”, come ha detto suo marito. Vogliamo il nome dell’orrore, che ci consenta la rabbia e poi la catarsi. Ma questo nome non ci rassicura perché è scritto addosso all’umanità. Imperfetta, a volte malata e feroce, capace di sopraffare i più indifesi, anche quando sono i suoi figli.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.