E’ l’ossessione egualitaria che ha portato uno come Luciano Ligabue, un cantante, a giustificarsi davanti alla pubblica opinione per aver indossato un “pellicciotto” durante il backstage di promozione

L'inquisitore collettivo

Pietrangelo Buttafuoco

Guai a dire asino all’asino, perché le bestie non sono più bestie ma “esseri senzienti”. E chi non si adegua sarà o ridicolizzato o criminalizzato. Dizionario a uso dei nuovi Torquemada.

Solo chi non ha mai provato l’ebbrezza di attraversare una pelliccia per scovare la carne di una femmina può odiare questo capo d’abbigliamento – cruento e lussuoso, sfacciato, perché la vita è un rimando segreto di crudezza e sopraffazione – e se proprio non si vuole buttarla sul pesante, sull’erotico, su quella meravigliosa ossessione che è l’Eros, si può qui dare una versione romantica e struggente: solo chi non l’ha sentita sulle ginocchia, una coperta ricavata dalla pelliccia di un animale, sfrecciando a bordo di una slitta tra le nevi di Russia, non può capire l’urgenza di quell’ammasso elegante di morbidezza, buona salute e voluttà.

 

Peggio per chi non capisce. E solo chi sa tenere la punta del coltello sulla vena gonfia dell’animale – prescelto nella catena della sopravvivenza – discerne l’uomo, la bestia e ogni virtù, e capisce qual è il vero confine tra la vita, la morte e le vacuità del filantropismo precipitato oggi nella A di animalismo. E’ l’ossessione egualitaria che porta uno come Luciano Ligabue, un cantante, a giustificarsi davanti alla pubblica opinione – la masnada cui è data sovranità di sentenza, l’Inquisitore collettivo – per aver egli indossato, durante il backstage di promozione del suo nuovo album, un “pellicciotto”.

 

C’è, dunque, questo Inquisitore collettivo che non teme il ridicolo perché sa di aver guadagnato a sé un’autorità invincibile al punto di far convocare in una caserma dei carabinieri una Luciana Littizzetto, pur venerata musa delle professoresse democratiche, rea di maltrattamento animale. Colpevole, la Littizzetto, di aver fatto un’apparizione in tivù, portando a spasso, su un carrello, un maiale. Fatta premessa che sana è solamente quella società dove il maiale, gravato di ogni stigma semantico, maiale è e tale resta, non meraviglia nessuno che l’autorità giudiziaria abbia dovuto perdere tempo nel ricevere i cittadini animalisti, redigere verbale, stendere denuncia e impegnare, infine, un tribunale per una causa che vede la signora, pur spalla di Fabio Fazio qual è, accusata di indicibili abusi (lo portava a spasso) ai danni del suino. Come se fosse una cosa seria. Ed è serissima cosa a tal punto che questa sensibilità – da stravaganze e convincimenti propri di pochi eccentrici, fosse una Brigitte Bardot, o un Adolf Hitler – è diventata dogma, protetta adesso nell’automatismo inquisitorio prossimo a diventare canone. E’ il comandamento di una neo lingua dove dare dell’asino all’asino sarà disdicevole perché i presupposti, nel trionfo dell’Inquisitore collettivo, sono già codici di un bibbione inesorabile: non sono più, le bestie, bestie, ma “esseri senzienti” e siccome si comincia sempre con “la fattoria degli animali”, si finisce col completare la palingenesi giusto nella parodia della parodia: libertà del creato rispetto al Creatore, uguaglianza tra bestie, uomini e Dei; fratellanza, infine, di ogni fraternità indicibile. Perfino, come qualche parlamentare Cinque stelle ha già fatto, di immaginare il matrimonio tra “esseri senzienti di specie diversa”. A saperlo, Pasifae, la mamma del Minotauro, non si sarebbe trasformata in vacca per farsi ingravidare dal toro. Con le sue belle gambe da bipede, bionda e avvenente, sarebbe corsa al municipio. Ignazio Marino, quello della B di bicicletta (altro stilema dell’Inquisitore collettivo), l’avrebbe coniugata immediatamente. Con tanto di photo opportunity.

 

A proposito di tori c’è quella vicenda del “toro gay” che merita di essere qui riproposta. L’innesto della parola “gay” – si sa – produce un cortocircuito. Nei motori di ricerca, già nel digitarla, come adesso, si accende un segnale di avvistamento. Si entra in zona pericolo e questa faccenda del quadrupede cornuto, solitamente considerato per la doppia funzione di procreatore e sopraffattore cade a fagiolo in ragione di una maligna morale insita nella nefasta favola di Benji, toro gay per l’appunto. Sam Simon, il co-creatore dei “Simpson” (che di per sé, cartoon dell’indottrinamento quale sono, veicolano il pensiero unico del mondo ridotto a un unico Inquisitore, pur collettivo) ha dato tutto il proprio patrimonio alla causa animalista per salvare dal macello Benji, il toro diventato famoso per non saper coprire le vacche. Filantropo, malato terminale, Simon ha probabilmente risolto il suo regolamento di conti con la propria coscienza tuffandosi tra le braccia del pensiero unico. Ha dunque riscattato Benj. Lo ha pagato, lo ha comprato e lo ha collocato in un santuario – ripeto, in un santuario – per fargli esercitare “il pieno libero arbitrio”.

 

Pelliccia a parte – nelle trappole della vita, per scamparla in società – si tratta sempre di pelo. E c’è sempre da lisciare il pelo dal verso giusto. La neo lingua che dà forma al neo mondo del pensiero unico si fonda sull’umanismo. L’uomo, in quanto persona impersonata da nessun altro carattere che la spersonalizzazione, è solo un involucro neutro. Inutile dire, pur di non urtare il codinismo culturale, che non ci sono più maschietti e femminucce, ma in tutta questa epica degli esseri senzienti si imposta la tirannia dell’Inquisitore collettivo. E c’è la riduzione a parodia, dunque, della libertà ridotta al rango di legalità. La sostituzione, quindi, dell’Eros, con il più immondo dei surrogati, l’Etica, e la E di eterosessuale (arrivando dopo la C di correttezza ideologica e la D di diritto) è considerata un disagio proprio della natura selvaggia, tutta da redimere rispetto a quella F di femmina che non può più essere considerata quale estremo polare di una dualità, piuttosto un transito di genere, un’identità provvisoria, un approdo, insomma, qualcosa di pericoloso visto che alla lettera G di gender ci sono già pronti i gendarmi del pensiero unico a far scattare le manette specie adesso che Conchita Wurst, il cantante con la barba vestito da donna, è stampato sulle carte di credito, si mette in tasca lo scettro del potere finanziario, e inaugura la sessione del Parlamento europeo, parodia della parodia qual è di Europa, nume di invincibile bellezza, rapita – per come fu, a suo tempo – da un Toro, un toro maschio va da sé.

 

Pelliccia a parte, c’è sempre da lisciare il pelo per il verso giusto e mai come in questo tempo, Torquemada ci perdoni e non se ne adonti, l’Inquisizione ha avuto un così sfacciato dominio. E’, il mondo di oggi, verosimilmente civile a dispetto di ogni cultura, il più claustrofobico e il meno caritatevole. Il vescovo che nega la cresima al figlio di un mafioso nella chiesa dove è sepolto padre Puglisi stride rispetto alla lectio di pietas di un Priamo che bacia le mani ad Achille – le mani di chi gli uccise il figlio, Ettore – e stona rispetto alla tonante Misericordia del perdono. Ma il mondo di oggi, totalmente preda dell’Inquisitore collettivo, è anche il meno ironico. Quando Massimo Boffa, seduto sulla metropolitana di Mosca, collegato al wi-fi gratuito scarica sul proprio iPad i sofferti commenti della Stampa sulla censura imposta da Vladimir Putin e ce lo fa sapere, quasi non si può ridere perché automatismo impone di immaginare sia, quella di Boffa, solo una facezia e non – per com’è – un’evidente risposta al dogma occidentalista che vuole il bene tutto per sé e il male darlo solo agli altri. Il pelo va sempre per il verso giusto, se la H di Hitler è il tabù in assoluto, al punto che oggi sarebbe impossibile per un Vittorio Gassman, farne l’imitazione, come nel “Mattatore” (un Buster Keaton, nel ruolo di un generale tedesco, non troverebbe più lavoro, per non dire di Pietro Garinei: “Tutto tritaten-tutto tritaten”, o le gag, se per caso un’agenzia del turismo germanica prendeva in gestione un lido dalle parti di Rimini veniva facile mettere in copione, e poi in voce fuori campo, inquadrando gli altoparlanti, una frase tipo: “Se si perde un pampino tetesco dieci pampini italiani saranno smarriti”) la I di islam è ormai tutto un libro da allegare al manuale dell’Inquisitore collettivo. I mangiatori di fegato, i cosiddetti ribelli anti Assad, assassini spietati, diventano custodi della democrazia; tutti gli alleati degli americani nella penisola arabica, nel vai e vieni del Grande Gioco, grazie al ben retribuito lavoro degli influencer debunker di ogni sorta, sono i bene accetti nella guerra contro la Persia ma si ritrovano tutti a fare, dopo la stagione di al Qaida, il Califfato; e così le primavere del nord Africa – quella libica in testa – in luogo della L di libertà (questa sì, una fola, nell’esportazione della democrazia) si rivelano tutte nella M del mondialismo, la cuccia calda del pensiero unico il cui pilastro invincibile è nella lettera N di nichilismo.

 

Certo, l’Inquisitore collettivo non fa più la fatica del Sant’Uffizio, non ha tomi da consultare. Sta dalla parte giusta della storia, l’Inquisitore e rinnova sempre il proprio codice, assecondando l’eterna lusinga cui gli uomini, e le donne, si votano: perpetuare l’adolescenza. E sempre nella nebbia di sopore propria delle buone intenzioni. Non ha l'ingenuità di uno stato di polizia, il dominio dell’Inquisitore collettivo, ma il raffinato meccanismo attraverso cui chi è fuori – chi resta fuori, chi da fuori, poi, urla e disobbedisce – o è ridicolizzato o è criminalizzato.

 

[**Video_box_2**]Mai una tirannia ha avuto così severa guardiania e l’unica dottrina – di cui si fa schermo – è quella pavloviana del riflesso condizionato. L’opinione pubblica, senza attendere Hamelin che già ha suonato il piffero, con la facilità propria di una benevola pedagogia ne ha assorbito gli obblighi il cui imperativo, fosse pure la O di omosessualismo, è come una cometa che accompagna alla P di presepe. Ed è presepe i cui pastorelli non vestono certo gli abiti di Dolce & Gabbana, pur di tendenza, piuttosto i panni modesti degli insegnanti – le signore maestre, perfino – la cui unica preoccupazione didattica è quella d’insegnare ai bimbi come combattere l’omofobia invece che imparare a recitare l’Angelo di Dio. Tutto è Q di Queer perché, infine, nell’umanismo, ogni cosa è corretta. Non si potrà più cantare “nel continente nero, paraponziponzipò”, il cuore non potrà più essere zingaro ma di etnia rom; Iva Zanicchi non potrà farsi leggere la mano; ancora negli anni Sessanta, nei Topolino, c’era Paperon de’ Paperoni preoccupato di prendersi i pidocchi in Africa e un Totò che oggi  disinfettasse le poltrone dove precedentemente erano stati seduti Pasolini e Ninetto Davoli, sarebbe escluso dal consesso civile.

 

Tutto è Q di Queer perché tutto è un precipitare nella corporeità. E non è la R di rivoluzione, bensì di restaurazione perché questo adagiarsi nella facilità della materia oscura, fosse pure l’inconscio post-freudiano, o l’incubo darwiniano, o il totalitarismo finanziario, è un riportare il cosmo e la vita alla condizione primigenia dell’infanzia libera dalla S di Sacro.

 

Tutto è nulla, nulla vale il tutto. Il rancore verso il Sacro è il fondamento della T di tirannia inquisitoria. La cifra che qualifica l’ideologia dell’Inquisitore collettivo è quella delle Femen, assai gradite quando, con le tette al vento, profanano l’ortodossia cristiana di Russia e l’islam. Non è neppure un ateismo a far da collante, anzi, vale il principio di dare in pasto alle genti una qualunque parodia di religione, preferibilmente di vaga infarinatura cristianista. Piace da pazzi, all’Inquisitore collettivo, Papa Francesco. E’ un Pontefice che non disturba su qualsiasi “valore non negoziabile”. E piace tanto, infatti, a Dario Fo e, manco a dirlo, a Ken Loach. E la U di utopia, nel disegno dell’Inquisitore collettivo, trova consistenza nella costruzione di una speciale V di verità, sempre più speciale, affinata nei meccanismi della rarefazione nichilista. L’Inquisitore collettivo, ammantato di verità, piega la realtà alla Z di zoo. Fa dell’umanesimo, e così della fatica tutta umana di superare la propria natura per incontrare il cielo, un cacatoio a disposizione dell’Anticristo. E questo è il capolavoro dell’Inquisitore collettivo. Aver portato a compimento la parodia. Un tempo l’Inquisitore era uno, adesso uno è diventato il pensiero unico di tutti, i tutti diventati “essere senzienti”. Ma solo chi non ha mai provato la felicità di prendere la vita sotto braccio, nella potenza abbagliante di sbagliarle tutte pur di guadagnarsi – pelliccia a parte – la libertà di strusciare il pelo dal verso torto, non capisce. E se ne resta in compagnia del toro.

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  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.