Dipinto di Alex Folla - Football Prayers, 2014, tecnica mista su tela, cm 100x150

Il segno del popolo e dei cristiani, che resiste anche al football globale della PlayStation

Maurizio Crippa

Il segno della croce in campo tra fede e superstizione. Il primo fu Falcão: divennero tutti i bambini, specialmente i più lesti, maestri di quella danza-preghiera che benediva l’inizio partita. Ora il gesto s’è fatto pop, credo l’abbiano digitalizzato pure nella PlayStation.

Il primo, quando apparve la tv a colori e il calcio diventò uno show, a trasformare il gesto semplice della fede antica in un marchio globale fu Falcão, inteso il Re di Roma. Entrava in campo con la sua grazia di ballerino e compiendo un naturale inchino, miracolosamente senza perdere il ritmo e il passo, sfiorava l’erba con le dita. Poi, raddrizzando la fronte riccioluta, rapido tracciava i quattro punti cardinali dei cristiani, il segno della croce. Divennero tutti i bambini, specialmente i più lesti, maestri di quella danza-preghiera che benediva l’inizio partita. Senza sapere, forse, se fosse solo gioco o qualcosa di più. Me li ricordo ancora.

 

Ora il gesto s’è fatto pop, credo l’abbiano digitalizzato pure nella PlayStation. I segni della croce fanno parte dell’esibizione. Lavezzi è più compulsivo nel segnarsi che nel dribblare, Parigi è assediata dall’islam ma insieme Thiago Silva e David Luiz totalizzano più segni di croce di una processione di Bahia. Messi si segna quanto segna. Gesti, riti. Ma se insistono a bucare lo schermo è perché continuano a essere segni d’altro. Maradona rientrò dal famoso infortunio ai tempi di Barcellona facendo tre saltelli e un segno della croce. Superstizione? Fede popolare? Il cittì Conte, d’un tratto s’è scoperto che oltre a ringhiare si segna pure lui, devoto a Francesco. Gioco popolare, roba di classi povere e periferie non per forza esistenziali e poi di colonie battezzate per forza e per amore, la verità è che il calcio è ancora una faccenda del popolo, e di figli del popolino che si ricordano ancora il segno della croce e non ne hanno vergona, persino in Europa. E forse i bambini di oggi sanno cos’è, quel simbolo, solo perché lo vedono fare ai loro idoli, e lo rifanno. Mi ricordo un bambino, era musulmano e giocava con mio figlio, entrava in campo e lo faceva pure lui. Ma forse un giorno, sul prato di un qualche Emirates Stadium, impediranno a quei ragazzi diventati eroi di sfiorare l’erba, e di segnare come i loro padri i quattro punti cardinali che uniscono terra e Cielo.

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  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"