L'Aula di tribunale prima dell'ultima udienza d'appello del processo Eternit (foto LaPresse)

Tutta colpa della prescrizione?

Redazione

La sentenza Eternit riaccende il dibattito sulla giustizia, la lentezza dei processi, le responsabilità di politici e giudici e le riforme impossibili.

«La prescrizione dei reati, che il codice di diritto penale prevede, è un’offesa al senso di giustizia o una garanzia per il cittadino di fronte alla pretesa punitiva dello Stato? Questa domanda è affiorata, evidente e drammatica, in occasione della sentenza della Cassazione che ha annullato la condanna a 18 anni di reclusione al magnate svizzero Schmidheiny per il disastro doloso ambientale causato dall’amianto nella produzione dell’Eternit» (Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale) [1].

 

La vicenda in breve: mercoledì scorso la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Torino del 3 giugno 2013 del processo Eternit: è stata, infatti, prescritta la condanna a 18 anni all’unico imputato, Stephan Schmidheiny, a capo dell’azienda e accusato di disastro ambientale per aver esposto i lavoratori all’amianto e alla conseguente morte per mesotelioma pleurico. La decisione è arrivata tra le proteste dei familiari di alcune delle oltre tremila vittime registrate nei quattro stabilimenti italiani e tra i cittadini di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Sfumano così i risarcimenti previsti dalla sentenza di appello per le 983 parti civili: familiari e comunità locali. Le morti per amianto, intanto continuano e dovrebbero avere il loro picco nel 2025.

 

Donatella Stasio: «Suonano come una beffa le parole di Matteo Renzi a poche ore dalla sentenza: “Non ci può essere l’incubo della prescrizione. Bisogna cambiare le regole del gioco”. Parole sante, se non fossero pronunciate dal capo di un governo che da aprile annuncia la riforma della prescrizione, che l’ha approvata solo il 29 agosto, ma che ancora non ha fatto pervenire al Parlamento la sua proposta (pur continuando a parlarne come cosa già fatta), con il solo risultato di aver rallentato i lavori parlamentari in corso da maggio. Parlare di prescrizione, oggi, è “popolare” e il premier cavalca il sentimento popolare nel solco della peggiore tradizione politica» [2].

 

Nel processo Eternit la procura di Torino aveva contestato il delitto di disastro, reato che si realizza «quando viene cagionato un evento dirompente di vaste proporzioni che crea una situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone» [3].

 

Carlo Federico Grosso: «Il problema è sorto quando ci si è domandati in quale momento il reato di disastro si consumi. Secondo l’interpretazione maggioritaria della cassazione, ciò si verificherebbe quando le condotte che cagionano la situazione di pericolo (ad esempio l’inquinamento di un ambiente) vengono a cessare (ad esempio, perché l’ambiente viene bonificato o l’attività produttiva nociva viene interrotta). Secondo un’interpretazione minoritaria, la persistenza dell’insorgere di malattie o del verificarsi di decessi impedirebbe invece di considerare concluso il fatto disastroso, che rimarrebbe vivo fino a che tutte le patologie o gli eventi collegati al disastro si siano esauriti. In questa prospettiva il delitto di disastro verrebbe meno soltanto quando si sia verificato l’ultimo decesso o l’ultima malattia collegata alla situazione di pericolo. La spiegazione tecnica di quanto è avvenuto nella vicenda Eternit risiede tutta in questa divergenza d’interpretazione» [3].

 

Maurizio Belpietro: «Naturalmente tutti, o quasi, se la sono presa con i giudici della Cassazione, i quali sono stati accusati di non aver avuto il coraggio di condannare un uomo ricco e potente. Ma qui non si tratta di aver coraggio. Anzi, semmai i magistrati della suprema corte di coraggio ne hanno dimostrato anche troppo, perché con l’assoluzione per prescrizione hanno sfidato l’opinione pubblica che voleva a tutti i costi una condanna, anche a prezzo di violare il codice. Perché il problema sta tutto lì, nella legge penale, che fissa i termini di prescrizione per il reato di disastro ambientale. Superati 12 anni dai fatti, il reato non è più perseguibile. E siccome l’azienda è chiusa dal 1986, cioè ha smesso di diffondere nell’aria le polveri che provocano il mesotelioma ai polmoni, per la giustizia il reato si è prescritto nel 1998, cioè molto prima che cominciasse il processo di primo grado e che la Procura di Torino decidesse di aprire il fascicolo contro Schmidheiny per disastro ambientale» [4].

 

Di parere opposto Marco Travaglio: «Diciamo subito che la Cassazione non era affatto obbligata dalla legge a dichiarare prescritto il reato di disastro colposo per il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny. La Corte poteva sposare l’interpretazione alternativa data dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Torino, che con due sentenze molto ben motivate avevano spiegato come il disastro provocato dall’amianto, rimasto a lungo latente e poi esploso con effetti che semineranno malati e morti per tanti decenni ancora, non può cristallizzarsi – come invece ritiene la Cassazione – all’istante in cui le fibre del minerale-killer smisero di depositarsi sul terreno con la chiusura della fabbrica di Casale nel lontano 1986» [5].

 

Giovedì, sulla Stampa, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l’interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. Zagrebelsky: «La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell’autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un “ostacolo insormontabile” rende impossibile che il giudice proceda» [2].

 

Ma che cos’è la prescrizione? E come funziona? Giorgio Dell’Arti: «“Gli effetti giuridici del trascorrere del tempo”. Se dal reato è passato troppo tempo, c’è una convenienza sociale a metterci una pietra sopra. Oltre tutto, la pena, nel sistema italiano, ha anche un fine rieducativo, e quale reo avrà bisogno di essere rieducato a una distanza così lunga dalla sua colpa? Premesso che i casi e i sottocasi sono un’infinità, in genere la prescrizione scatta quando è trascorso un tempo pari al massimo della pena prevista per quel reato. Tra le complicazioni possibili c’è quella che è spesso poco chiaro il momento da cui si comincia a contare il tempo della prescrizione» [6].

 

Donatella Stasio: «Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall’uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l’ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il “disastro ambientale” contestato nel processo Eternit» [2].

 

Gli attacchi alle modifiche introdotte da Berlusconi nel 2005 non sono troppo convincenti: le prescrizioni nel 1996 furono 56.486 e nel 2003, quando la legge Cirielli non era ancora stata approvata, furono il quadruplo, cioè 206 mila [6].

 

Ricorda Liana Milella che il ddl sulla riforma della giustizia stagna nei cassetti di Palazzo Chigi da 90 giorni: «Il ministro Orlando decide ora di stralciare, dal corposo ddl che riscrive pezzi importanti della procedura penale, l’articolo 3 sulla prescrizione. Va in tv e annuncia che “la prossima settimana la prescrizione andrà in Parlamento”. Promette addirittura «una rapida approvazione». Quando? Al ministero si azzarda una previsione, quattro mesi, ma pare il libro dei sogni. Di tempo ce ne vorrà molto di più, come dimostra l’avventura dell’autoriciclaggio» [7].

 

Travaglio: «Come spiega Piercamillo Davigo sull’ultimo Micromega, la prescrizione non è l’effetto dei processi lunghi: ne è la causa principale, perché incoraggia i ricorsi dilatori e le perdite di tempo degli imputati ricchi e dei loro avvocati specialisti in criminalità & impunità. Il timidissimo ddl Orlando, ove mai fosse approvato, non cambierebbe una virgola dello sconcio, che dipende da due fattori nemmeno sfiorati dal ministro della Giustizia: in Italia la prescrizione parte quando il delitto viene commesso, non quando viene scoperto; e – caso unico al mondo – non si ferma mai, nemmeno dopo due condanne di merito alla vigilia del giudizio di legittimità in Cassazione, e neppure quando uno patteggia la pena (e poi fa ricorso contro la sanzione da lui stesso concordata)» [5].

 

«Ecco la bugia, ecco la speculazione, ecco il miglior modo di non vedere il problema: non la prescrizione, ma la durata dei processi. Tutti quelli che diranno e scriveranno che l’Italia è l’unico Paese dove si applica mentiranno. C’era già nell’antica Grecia, c’è in Francia, c’è in Germania, c’è in Spagna. Tempi e modi diversi, ma c’è. La prescrizione non c’è in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove però vige una prassi che fa impallidire i nostri tribunali: la durata dei processi è in media di due anni. In Italia è di otto» (Giuseppe De Bellis) [8].

 

[**Video_box_2**]Ma non è stata la lentezza della giustizia a portare a questa sentenza sul caso Eternit, sottolinea Luigi Ferrarella: «Di fronte a 3.000 morti, ogni parola rischia di suonare oscena. Ma osceno è anche illudere la gente che la prescrizione sia dipesa dalla lentezza della giustizia (tre gradi di giudizio in appena quattro anni?) o dai guasti della, per molto altro nefanda, legge ex Cirielli, anziché dal messianico continuo chiedere solo al processo penale ciò che fatica a dare: l’applicazione delle classiche categorie di responsabilità nate negli anni ’30, e dell’asticella probatoria più alta che nel civile (“l’oltre ogni ragionevole dubbio”), a eventi epidemiologici lesivi di un indeterminato numero di persone e svelati dalla scienza decenni dopo» [9].

 

Carlo Federico Grosso: «Ben venga comunque, ora, l’indignazione (tardiva) dei politici per gli effetti dirompenti della prescrizione (come è stata delineata qualche anno fa dalla c.d. riforma ex Cirielli) sul sistema di giustizia italiano. Purché ovviamente non si finisca per cadere nell’eccesso opposto: eliminare cioè pressoché del tutto, o ridurre in modo spropositato, gli effetti estintivi del decorso del tempo. La ratio della prescrizione – e cioè non punire il delinquente che, a distanza di anni dalla commissione del reato, magari si è redento o si è rifatto una vita – mantiene infatti, intatta, la sua efficacia persuasiva» [3].

 

Note: (tutte dai giornali del 21/11) [1] Cesare Mirabelli, Il Messaggero; [2] Donatella Stasio, Il Sole 24 Ore; [3] Carlo Federico Grosso, La Stampa; [4] Maurizio Belpietro, Libero; [5] Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano; [6] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport; [7] Liana Milella, la Repubblica; [8] Giuseppe De Bellis, il Giornale; [9] Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 21/11.

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