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Tre palle, un soldo

L'acqua e le balle

Enrico Cisnetto

I guai combinati dalla riforma del Titolo V della Costituzione e qualche consiglio rivoluzionario.

Ha ragione Renzi: i danni provocati dal maltempo sono da mettere in conto alle regioni. Dico di più: sono il triste epitaffio sul miraggio federalista che per oltre vent’anni ha illuso (quasi) tutta l’Italia. Il “dissesto idrogeologico” non è l’espressione della lotta tra la “natura buona” e “l’uomo cattivo” (Elefantino docet), quanto la condizione prodotta dai mancati interventi di ordinaria prevenzione del territorio (a cominciare dall’assicurazione anticatastrofale) da parte di tutti, ma che più di tutti è imputabile alle regioni. Il malinteso “decentramento”, tra l’altro inadatto all’Italia, che pretendeva di avvicinare il potere ai cittadini e snellire le decisioni, nella realtà ha aumentato gli sprechi, coltivato la già enorme diffidenza degli italiani verso le istituzioni, e, soprattutto, moltiplicato i diritti di veto che ci paralizzano. Dietro lo psicodramma delle “bombe d’acqua” c’è, infatti, l’ennesima evidenza nella lunga storia dei fallimenti del localismo da campanile che abbiamo chiamato pomposamente federalismo. Come dice Renzi, le regioni non hanno concorso a stilare piani strategici unitari, hanno guerreggiato tra di loro e verso lo stato centrale su competenze e poteri, hanno speso meno di un quarto dei soldi a disposizione dal 2009, avviando solo il 22 per cento delle opere programmate per la messa in sicurezza del territorio.

 

Certo, non tutte le regioni sono uguali, ma nel complesso il risultato è disastroso. A monte c’è, ovviamente, la responsabilità di una politica nazionale debole, che ha cercato nel decentramento regionale una stampella. Per esempio, sempre per rimanere nel campo della tutela del territorio, fu una follia, anche solo semantica, la divisione delle competenze operata dal Titolo V nel 2001 tra la “tutela dell’ambiente”, affidata in via esclusiva allo stato, e il suo “governo”, in concorrenza tra stato e regioni. E così, poiché ogni regione ha potuto dire la propria, le 120 “grandi opere” necessarie nel 2001 sono diventate oggi 403, con un aumento del 200 per cento dei costi e il nefasto effetto per cui, di fronte a troppe priorità, non c’è nessuna priorità. Inoltre, si potrebbe fare un lungo elenco di infrastrutture di interesse nazionale bloccate per decenni dai veti degli enti locali (di questi giorni l’assurdo diniego trentino contro la Valdastico Nord). Il Titolo V ha creato terreno fertile per le gelosie e le incompetenze della politica da campanile. Già negli anni passati, i governi hanno nominato alcuni commissari, ai quali però le regioni hanno ostacolato il lavoro. Adesso, con l’istituzione dell’Unità di Missione contro il dissesto idrogeologico e l’unificazione della figura del commissario con quella del governatore, stiamo assistendo a qualche passo avanti, ma eliminare solo un ramo di una pianta che è malata fin dalle sue radici non rappresenta certo la soluzione definitiva. Non è populismo anticasta sottolineare che per la “protezione della natura e dei beni ambientali” le regioni spendono quanto per le indennità di consiglieri e assessori (1,1 miliardi l’anno). Con un andamento tendenziale amaramente inverso: in 4 anni le spese per giunte e consigli sono cresciute del 26 per cento, quelle per l’ambiente diminuite quasi del 39 per cento. Le tasse regionali, poi, dal 2001 a oggi, sono passate da 47 a 81 miliardi, andando a coprire la crescita del 40 per cento della “spesa corrente”, mentre gli investimenti diminuivano dell’11,3 per cento. Inoltre, le spese in conto capitale dei comuni sono scese dai 44,1 miliardi del 2009 ai 27,7 del 2013 (-37,1 per cento). Per di più, le regioni non sono in grado di garantire i cofinanziamenti necessari a liberare i miliardi dei fondi strutturali europei.

 

[**Video_box_2**]Ma se oggi è il combinato disposto tra la mancata tutela dell’ambiente e il blocco delle opere, grandi e piccole, a inchiodare le regioni a un clamoroso fallimento, tra i capi d’imputazione non è certo da meno la sanità. Perché “nonostante l’efficienza non sia aumentata, con il trasferimento delle competenze alle regioni la spesa sanitaria è esplosa” (Lorenzin dixit). Di quasi il 33 per cento per l’esattezza, pari a 56 miliardi in più in 10 anni. Se le regioni sono in decadenza, come conferma anche la decrescente affluenza elettorale alle elezioni locali (che sarà confermata domenica in Emilia Romagna e Calabria) e le Province sono assolutamente prive di legittimità, anche i comuni non se la passano bene, visto che degli 8.100 esistenti ben 479 hanno dichiarato il dissesto finanziario.

 

La lista delle responsabilità del federalismo è lunga. Il Patto del Nazareno, su cui si regge questo governo, aveva tra le sue priorità anche la Riforma del Titolo V. Oggi sarebbe sufficiente solo a rimetterci una pezza, mentre qui serve “cambiare verso”, per dirla renzianamente. Ci vuole una rivoluzione: abolire le regioni autonome e tutte le Province; accorpare i comuni sotto i 15 mila abitanti; cancellare i soggetti secondari, dalle comunità montane agli enti di bacino. E le regioni? Come minimo devono ridursi a sette e perdere le competenze sanitarie. Ma non mi straccerei le vesti se si decidesse che debbano essere proprio le regioni a dover sparire del tutto. Speriamo solo che bombe d’acqua non abbiano colpito le buone intenzioni.

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