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Obbligo di magia

Guido Vitiello

Ogni metafora infelice è infelice a suo modo, ma tutte le metafore felici si somigliano: le prendi alla lettera, le prendi sul ridere, le osservi da lontano, le scruti da vicino, da qualunque lato le guardi restano sempre felici.

Ogni metafora infelice è infelice a suo modo, ma tutte le metafore felici si somigliano: le prendi alla lettera, le prendi sul ridere, le osservi da lontano, le scruti da vicino, da qualunque lato le guardi restano sempre felici. Diceva Giovanni Falcone che l’obbligatorietà dell’azione penale è diventata un feticcio, e mi è sempre parsa metafora felicissima. Per averne conferma ho fatto un piccolo esperimento. Dal mio scaffale etnologico decisamente démodé ho pescato “Primitive Culture” (1871) di Sir Edward Burnett Tylor, uno dei primi a teorizzare sul feticismo. A quel che leggo, il feticista crede che in un oggetto materiale dimori lo spirito degli antenati, e che questo oggetto – una statuetta, un amuleto, un ciocco di legno – possa esercitare un’azione magica. Poi ho aperto il nuovo MicroMega sulla giustizia (numero epocale, che segna il passaggio dei manettari alla fase nichilista-punk), dove c’è un intervento del procuratore di Torino Armando Spataro dedicato appunto all’obbligatorietà, che ha per titolo la metafora – ahi, quanto infelice – “Il dito e la luna”. Il procuratore celebra quei padri costituenti che foggiarono il principio-feticcio e vi insufflarono le loro intenzioni benigne (nello schema di Tylor, è lo spirito degli antenati). L’evocazione rituale di quei nomi venerandi serve a far comprendere, dice Spataro, l’importanza del principio e soprattutto il suo “valore di garanzia”.

 

E’ questa, parrebbe, l’azione magica e protettrice dispiegata dal feticcio: l’obbligatorietà, per il mero fatto di essere inscritta nella Costituzione, garantisce l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Qualunque etnologo non troppo distratto, in visita presso le tribù dei tribunali, constaterebbe facilmente che ciò non accade, e che anzi l’obbligatorietà produce l’esatto contrario, ossia l’arbitrio più irresponsabile. A questo pericoloso seminatore di dubbi illuministici, che in altri tempi sarebbe finito nel proverbiale pentolone, Spataro dedica il paragrafo “Gli pseudoargomenti dei detrattori”. Non si dica che i magistrati fanno di testa loro! Ci sono dei criteri: si dà la precedenza ai reati più gravi “cioè puniti con pena più elevata” (e già qui ci sarebbe da storcere il naso, a lume di logica), si considera “la natura e la rilevanza degli interessi lesi”, anche a seconda della “maggiore o minore debolezza dei soggetti che ne sono titolari” (?), si mettono in coda i reati a un passo dalla prescrizione. Chi li ha stabiliti questi criteri? I magistrati, di testa loro. Ma questo lo dice l’etnologo scettico; loro credono, così facendo, di obbedire semplicemente al principio-feticcio e agli antenati costituenti che in esso dimorano. Quali sciagure verrebbero dall’abbandonare il culto! La malvagia tribù dei colletti bianchi la farebbe franca.

 

[**Video_box_2**]Spataro non è il solo esponente di questo “pensiero selvaggio” giudiziario. Ho scorso, con l’occasione, una mezza dozzina di libri-intervista ad altrettanti magistrati sui problemi della giustizia. La domanda sull’obbligatorietà c’è sempre, e le risposte hanno uno schema fisso. Dopo un omaggio all’idolo e ai suoi benefici tutti teorici (o magici, che è lo stesso), si passa a rintuzzare le obiezioni degli increduli. L’azione penale è discrezionale? Nemmeno per idea. Segue, di solito, un elenco dei criteri oggettivi di priorità, così oggettivi che non trovi due elenchi uguali: uno dice che si perseguono i reati gravi, sì, ma anche quelli più lievi che incidono sul contesto sociale; uno dice che si privilegia un reato o l’altro a seconda della zona d’Italia, perché ogni regione ha i suoi crimini tipici; un altro aggiunge che si scartano i reati per cui sembra improbabile ottenere una condanna. L’aleatorietà impera. Per l’etnologo figlio dei Lumi è l’ammissione lampante che il principio costituzionale è lettera morta, inanimata (un ciocco di legno, se preferite), ma loro dicono che no, tutto questo serve anzi a dargli “piena attuazione”.

 

Non so se sia pensiero magico; di certo non è pensiero logico. Qui però la metafora offre il suo fianco debole. Perché i primitivi, insegna Tylor, quando il feticcio si rivelava inefficace non ci pensavano due volte ad abbandonarlo: era il segno che lo spirito ne era fuggito.

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