Mario Draghi (foto LaPresse)

Svalutare costa

Ernesto Felli

Come prevedibile, abbiamo vissuto una nuova deprimente rappresentazione della disputa intorno ai decimali di deficit. La deflazione può essere virtuosa solo in uno scenario in cui le cose vanno bene.

Come prevedibile, abbiamo vissuto una nuova deprimente rappresentazione della disputa intorno ai decimali di deficit. Non è nemmeno interessante il dibattito sull’interpretazione dell’accordo raggiunto. Si tratta di una vittoria dell’Italia che, assieme alla Francia, avrebbe ormai rottamato il Fiscal compact, secondo l’interpretazione estrema di alcuni commentatori, o è al contrario la conferma che le tesi italiane, che coincidono ormai con quanto sostenuto dalla stragrande maggioranza degli economisti, non trovano ancora spazio concreto in Europa, con la conseguenza, complice la pavidità francese, che il consolidamento fiscale resta la priorità assoluta?

 

Si vedrà con la prossima Commissione. La battaglia delle idee conta, e la posta in gioco non è accademica. E quando diciamo che in Europa non si vede la luce, intendiamo dire che ancora prevalgono in Germania le opinioni sbagliate di economisti (tipo Hans-Werner Sinn) a capo d’importanti think tank e annidati nell’Advisory council del ministero dell’Economia tedesco. In breve, la loro tesi è che l’unico meccanismo di aggiustamento degli squilibri interni all’Europa, e in particolare all’Eurozona, deve consistere nel recupero di competitività dei paesi più deboli, in gran parte quelli del Club Med, e che l’unica strada è quella della svalutazione interna. La svalutazione interna significa ridurre salari, costi e prezzi rispetto a quelli dei paesi più forti, cioè più competitivi. Il corollario è che è necessario affermare il pareggio di bilancio, sia perché la recessione in alcuni paesi, e la scarsa crescita in altri, non sono viste come l’effetto di una carenza di domanda, sia perché con la stretta di bilancio si è costretti alla svalutazione interna, senza scappatoie. Peccato che questo modello abbia il difetto di non funzionare nel breve periodo, se non sotto particolarissime condizioni, come si è ricordato nel diario della scorsa settimana. Perché prezzi e salari non sono flessibili come ipotizzato in questi modelli, ma si piegano solo a prezzo di perdite molto consistenti di capacità produttiva e di occupazione. In altri termini, la compressione della domanda interna, che dovrebbe spingere alla riduzione dei prezzi, mette in moto una spirale deflattiva da cui non è facile uscire e che si trasmette, per il meccanismo delle interdipendenze economiche, anche alle economie considerate più competitive.

 

[**Video_box_2**]Questa è la storia degli ultimi anni e di questo oggi si discute a livello europeo e di questo parla la Bce per bocca di Mario Draghi, quando si segnalano i pericoli di deflazione. Ma allora la domanda da porsi è se sia possibile mantenere a lungo la deflazione in un solo paese, o in un gruppo di paesi appartenenti a un’unica area monetaria ed economica. Perché se si chiede a un gruppo di paesi la svalutazione interna, significa che si chiede deflazione (o inflazione più bassa rispetto agli altri paesi). Ma quando la deflazione si allarga a tutta l’area, e anche ad altre aree del mondo, la deflazione nel paese “debole” dovrebbe essere ancora maggiore. Ma ciò è complicato quando si ha deflazione ovunque o in molti paesi. Paradossalmente, la deflazione può essere virtuosa solo in uno scenario in cui le cose vanno bene. Questo perché con la deflazione, cioè con la riduzione dei prezzi o la loro assoluta stabilità, i salari reali divengono flessibili solo verso l’alto (così come i tassi d’interesse reali). Nel caso di un’economia in crescita con aumenti di produttività, i salari reali possono aumentare, e con essi il benessere, o con aumenti corrispondenti dei salari nominali o attraverso una riduzione dei prezzi. E questo sarebbe anche uno scenario virtuoso, se fosse presente anche la condizione di uno scarso indebitamento di famiglie, imprese e stato, o perlomeno una situazione non troppo squilibrata tra gli interessi dei debitori e quelli dei creditori. Non è questo il contesto attuale in Europa e in gran parte del mondo. E soprattutto la svalutazione interna (definita anche svalutazione reale) implica flessibilità verso il basso, non verso l’alto, del rapporto tra salari e prezzi interni e quelli degli altri paesi. E questo è difficile in una situazione di deflazione non limitata a un solo paese, cioè quando ovunque prevale bassa o zero inflazione. Ora, dietro le aspettative di deflazione o bassa inflazione estesa vi sono vari fattori, tra cui la riduzione dei prezzi dell’energia e delle materie prime. Ma anche questa diminuzione non è determinata solo dalle nuove tecnologie di risparmio energetico o dalle nuove fonti alternative al petrolio, cioè da fattori strutturali, ma anche da un rallentamento della domanda mondiale di materie prime dovuta alle difficoltà di crescita. E non è un caso che ormai l’Europa sia guardata con irritazione crescente, ed esplicita, dal resto del mondo come esportatrice di spinte recessive e deflattive a causa della sua autistica e persistente visione del funzionamento delle economie e delle sue interdipendenze.

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