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La pragmatica Fed vs. la deflazione

Marco Valerio Lo Prete

“Se ne usciremo fuori con una media di battuta da Hall of Fame, allora saremo salvi”, disse una volta ai suoi collaboratori, all’apice della crisi finanziaria, l’ex governatore della Federal reserve, Ben Bernanke. Il banchiere centrale, da appassionato di baseball, riconosceva che i migliori giocatori colpiscono in media una volta su tre nei loro turni di battuta.

“Se ne usciremo fuori con una media di battuta da Hall of Fame, allora saremo salvi”, disse una volta ai suoi collaboratori, all’apice della crisi finanziaria, l’ex governatore della Federal reserve, Ben Bernanke. Il banchiere centrale, da appassionato di baseball, riconosceva che i migliori giocatori colpiscono in media una volta su tre nei loro turni di battuta. Dal suo punto di vista, la Fed avrebbe dunque dovuto continuare a roteare la mazza: alla fine sarebbe stata giudicata sulla media dei colpi andati a buon fine, non tanto sulle palle mancate. A sei anni dal primo annuncio di Quantitative easing (Qe), o allentamento monetario, la Fed può rivendicare di aver puntellato efficacemente la ripresa americana. Ma la neogovernatrice, Janet Yellen, certificando ieri la fine del terzo round di Qe, ha lasciato intendere che la Fed non smetterà di giocare. Il pericolo di bassa inflazione, infatti, non è scomparso.

 

Il Quantitative easing (Qe) rientra tra le politiche “non convenzionali” delle Banche centrali. Essenzialmente consiste nell’acquisto su larga scala di asset come titoli di stato e altri strumenti finanziari (corporate bond inclusi), teso a restringere i tassi di interesse per rilanciare la crescita. Grazie alle operazioni di Qe, negli anni della crisi il bilancio della Fed ha continuato a gonfiarsi, raggiungendo livelli mai visti prima, pari oramai a 4,48 trilioni di dollari. Nel frattempo il tasso di disoccupazione, negli Stati Uniti, è sceso al 5,9 per cento dal picco record del 10 per cento raggiunto nell’ottobre 2009. Questo non è l’unico indicatore sulla base del quale valutare la ripresa, anche perché intanto – notano i più scettici – è calato il tasso di occupazione (cioè il numero di impiegati sul totale della popolazione), ma è già qualcosa. La ripresa dell’economia infatti, più in generale, si è consolidata, anche grazie al contributo della domanda interna: secondo il Fondo monetario internazionale, il pil americano crescerà del 2,2 per cento nell’anno in corso e del 3,1 nel 2015, mentre nell’Eurozona salirà rispettivamente dello 0,8 e dell’1,3 per cento.

 

[**Video_box_2**]Proprio un’espansione “a ritmo moderato” dell’economia americana e un “miglioramento” delle condizioni del mercato del lavoro, ieri, venivano citate nel comunicato della Federal open market committee (Fomc) per motivare la fine del Qe. Finisce l’èra del “grande esperimento”, come lo chiamava ieri il Financial Times. Quando nell’estate del 2013 Bernanke parlò per la prima volta di “tapering”, cioè di parziale riduzione di questo ennesimo stimolo monetario, i mercati di tutto il mondo inizialmente non la presero bene. Tuttavia col tempo sono sembrati farci l’abitudine, e così dal gennaio scorso gli acquisti mensili di mortgage-backed securities (titoli garantiti da mutui) ad opera della Fed sono diminuiti da 85 a 15 miliardi di dollari ogni mese. Adesso finiranno del tutto. Persistono però, nel contesto attuale, almeno due fattori che spingono la Fed a non abbassare la guardia, e quindi a non voler alzare i tassi di riferimento troppo repentinamente, come si evince dalle minute del Fomc rese note ieri. Primo, come scriveva ieri Bloomberg, il tasso d’inflazione statunitense non ha raggiunto l’obiettivo del 2 per cento per 28 mesi consecutivi, anche se secondo la Fed le possibilità che continui così “sono diminuite dall’inizio dell’anno”. In agosto l’inflazione al consumo è scesa all’1,7 per cento, anche per il continuo calo dei prezzi energetici. Poi c’è un altro fattore cui si guarda con crescente preoccupazione dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico, cioè lo stato di salute dell’Eurozona. Il nostro continente è considerato un buco nero della crescita, con il rischio che una disinflazione conclamata nell’Eurozona – dove non c’è paese in cui il tasso d’inflazione raggiunga oggi quello americano – possa trasmettere i suoi effetti peggiori agli Stati Uniti. Se si considerano pure l’incertezza che caratterizza l’operato di Bruxelles e le resistenze che da più parti vengono opposte a un intervento espansivo della Banca centrale europea, si comprende perché la Fed si voglia tenere pronta a roteare la mazza della sua politica monetaria.

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