Carlo De Benedetti (foto LaPresse)

Contro lo spettro della deflazione servono misure molto più radicali

Carlo De Benedetti

Per l’Ingegnere c’è un clear and present danger: i prezzi in caduta. Riguarda l’Europa e attraverso di essa l’economia mondiale.
L’Italia indebitata colpita in pieno: un deficit spending al 6 per cento.

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente. In tutti i documenti ufficiali delle banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington. Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

 

E’ anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone.

 

Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3% (0,8% depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un'area che rappresenta un quinto dell'output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi. E’ da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. E’ una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione.

 

Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un Paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali. L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia.

 

Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano. Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale-gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore ad esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare.

 

La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del Pil. Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l'Europa che ha una popolazione uguale al 5% di quella mondiale, un pil pari al 20% e un debito pari al 50% del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l'Italia che ha l'1% della popolazione mondiale, il 2.5% del pil e il 20% del debito mondiale.

 

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l'Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto.

 

Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l'Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.


Le resistenze tedesche sono note su questo, ma Mario Draghi ha dimostrato di saper tutelare l’interesse europeo al di là delle pressioni del socio di maggioranza. Il fatto è che serve una scossa inflazionistica, che vada anche oltre quell'obiettivo programmatico del 2 per cento che nei mesi scorsi è totalmente scomparso dai radar dei parametri europei. Credo che il 3-4 per cento per i prossimi due anni possa essere un obiettivo utile e sostenibile. Anche per far calare il tasso di cambio con il dollaro, che a questi livelli penalizza fortemente le produzioni dell’eurozona.

 

[**Video_box_2**]Una parte di quel lavoro contro la deflazione dovrebbe poi farlo Bruxelles raddoppiando almeno la massa d'urto degli investimenti prospettati dal piano Juncker: da 300 a 600 miliardi di euro per attestarsi a un livello almeno confrontabile ai corrispettivi impegni americani. Dovrebbero farlo i governi europei per immettersi sulla strada di regole comuni sostenibili (almeno gli investimenti fuori dal calcolo del deficit!) e, finalmente, di un governo comune politico dell'economia. Dovrebbe farlo, deve farlo, la Germania, immettendo potere d'acquisto nella sua economia e investendo a deficit per riequilibrare una situazione insostenibile nel medio periodo, per cui Berlino oggi vende a tutti e compra troppo poco da alcuni.

 

Ma nell'attesa che tutto questo accada, l’Italia deve rompere gli indugi e avere almeno il coraggio che ebbe Gerard Schroeder quando dieci anni fa portò il deficit tedesco oltre il 3 per cento, indicando nello stesso tempo le riforme per rientrare nel medio periodo. La trattativa in corso è umiliante per noi e per l'Europa. Discutere dello 0,3% in più di correzione, quando sono sette anni che l'economia non cresce e sono stati bruciati 8 punti di Pil è così assurdo da apparire irreale. Bisogna investire nell'economia 48 miliardi, lasciando aumentare il rapporto deficit/Pil di tre punti e operando un draconiano taglio di tasse sul costo del lavoro. Lo sforamento lo si deve dichiarare preventivamente, impegnandosi su un programma di riforme tale da riportare il Paese in tre anni al di sotto del parametro del 3 per cento, in parte attraverso l'aumento del denominatore (dunque del Pil) e in parte attraverso tagli di spesa improduttiva fino a 28 miliardi nel triennio e un prelievo progressivo sulle pensioni oltre i 2mila euro.

 

Da subito, però, va eliminata totalmente l'Irap residua (20 miliardi), si riduce di una somma analoga l'Irpef sui ceti medio-bassi e si investe il resto in una vera riforma degli ammortizzatori sociali, senza la quale è impossibile parlare di snellimento (necessario) della pubblica amministrazione e di flessibilità virtuosa del mercato del lavoro. Come ha scritto l'Economist di questa settimana, in un servizio per la verità tardivo sul rischio della deflazione, non bastano più i piccoli interventi. La deflazione è una malattia che non si combatte con le aspirine e nemmeno con il cacciavite. Qui si tratta di invertire le aspettative. Perciò serve il coraggio della politica migliore, in Italia come in Europa.

 

Sento già l'obiezione: De Benedetti, ma se l'Italia fa salire il deficit al 6% del Pil, come reagiranno i mercati? Credo di conoscere i mercati meglio di molti altri e sono convinto che nei prossimi mesi chi compra e vende titoli nel mondo ci punirà se non saremo in grado di rilanciare la crescita, non se supereremo quegli sciocchi parametri di vent'anni fa. Ho già detto del rapporto del Tesoro Usa e delle preoccupazioni americane sulla mancata crescita europea. Ma anche gli ultimi rapporti del Fondo monetario e di Moody's, così come gran parte dei paper degli uffici studi delle banche internazionali hanno messo al primo punto dei rischi di stabilità per il nostro Paese la mancata crescita. Se ci sarà da parte del governo italiano un piano serio, con una tempistica molto chiara delle riforme e del rientro in tre anni del deficit, allora io sono certo che i mercati reagiranno favorevolmente.

 

Non c'è la controprova? Può darsi. Ma la deflazione ormai è tra noi. E se indugeremo ancora, mangerà anche quel po' di ricchezza che ancora ci rimane e non ci rimarrà più niente da tentare per uscirne. Once deflation has an economy in its jaws – ha scritto l'Economist - it is very hard to shake off. Europe’s leaders are running out of time. Una grande canzone rock di trent'anni fa diceva “better to burn out than to fade away”. Ecco, evitiamo di consumarci in un lento e inesorabile degrado, interrompiamo la spirale del nostro destino, vedrete che l'Italia non brucerà.