Giorgio Napolitano (foto LaPresse)

Napolitano e il processo farlocco

Giuliano Ferrara

Il presidente della Repubblica avrebbe potuto invitare i magistrati di Palermo che lo interrogano oggi su questioni speciose, nell’ambito di un processo mediatizzato e privo di basi, a restarsene a casa.

Il presidente della Repubblica avrebbe potuto invitare i magistrati di Palermo che lo interrogano oggi su questioni speciose, nell’ambito di un processo mediatizzato e privo di basi, a restarsene a casa. Aveva spiegato loro con una memoria scritta ciò che c’era da dire su una lettera del suo ex consigliere giuridico, morto per un attacco di cuore al culmine delle polemiche sulla presunta “protezione” dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino dalle curiosità della magistratura, lettera che conteneva riferimenti oscuri a cose “indicibili” e che Napolitano stesso aveva reso pubblica: c’era da dire niente. Niente di saliente e giudiziariamente sensato può dirsi sull’espressione di un’ansia personale di un alto funzionario, specie in un dibattimento che ha alcuni vizi congeniti.

 

Primo. Si fonda prevalentemente su accuse di un noto calunniatore, il figliolo di un boss della mafia politica che aveva un arsenale clandestino in giardino, che è stato preso con le dita nel vasetto della marmellata mentre cercava di proteggere il proprio tesoretto di famiglia, e che era stato sbugiardato dal generale Mario Mori, il carabiniere che arrestò Salvatore Riina, quanto a suoi montaggi processuali inveritieri (un “papello” documentalmente falso, affiancato da altre derrate di “papelli”, era un penoso tentativo di infangare il prefetto Gianni De Gennaro, campione dell’antica lotta alla mafia al fianco di Giovanni Falcone).

 

Secondo. Si fonda su un’accusa inesistente, e il capolavoro è che l’accusa è risibile sia che non venga dimostrata sia che dimostri un suo profilo di credibilità. Infatti la non provata circostanza di aver “trattato” con la mafia, da parte dello stato e dei suoi organi di repressione che hanno assestato alle cosche colpi decisivi, mentre la chiacchiera politica antimafiosa dilagava a colpi di agende rosse e altre bandiere di mobilitazione dei creduloni, è rovesciabile logicamente in linea di principio: lo stato può reprimere l’antistato anche scegliendo di trasformare un boss in confidente o muovendosi nella zona grigia dell’interlocuzione e delle divisioni tra le famiglie mafiose, è ovvio, è un privilegio assoluto di ogni esecutivo che si rispetti e dei corpi e servizi che devono garantire la sicurezza del paese e dei cittadini con metodi legali, certo, che non consistono solo nell’ostentazione della fedeltà ai codici ma possono e debbono, in certi casi discrezionali, inoltrarsi nella pasta mafiosa in cui si è tenuti a mettere le mani allo scopo di distruggere la criminalità organizzata e metterla in condizione di non nuocere.

 

[**Video_box_2**]Sono cose elementari. Sono il patrimonio specifico dell’azione dell’esecutivo in regime di divisione dei poteri. Un governo ha non già solo il potere ma il dovere di pesare le sue decisioni repressive, di dosarle, di usarle al fine strumentale primario di colpire con la massima efficacia possibile l’Antistato mafioso. E tutte le mezze calze che cercano di intingere il loro biscotto legalista nella faccenda della presunta trattativa tra lo stato e la mafia nascondono l’unico elemento vero, storicamente vero, che illumina il quadro: questo stato colluso, questo stato che si dice mafioso e amico dei mafiosi, ha castigato in questi anni con durezza inesorabile i boss e le loro famiglie, conducendo la situazione repressiva e giudiziaria, dopo le stragi efferate Falcone e Borsellino, a un culmine di effettualità, di caparbia capacità di interdire l’organizzazione e invalidare le sue strategie d’offesa.

 

Questo è quanto. Ed è molto. Certe cialtronate non dovrebbero entrare al Quirinale nemmeno per la porta di servizio. Comunque, in ogni momento il presidente può fare ciò che vuole: lo streaming, il silenzio stampa, e anche congedare chi eventualmente voglia, come accadde con la sceneggiata sulla partecipazione di Riina al dibattimento quirinalizio, trasformare il tutto in una indegna caciara mediatica.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.