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Lady Spread torna a danzare

L'economia ristagna, il credito langue e stavolta non è colpa dei banchieri

Redazione

I segni della nuova tempesta aumentano. Per Padoan è fisiologico, dopo l’euforia. Le cause note e le incognite della crisi. La ripresa del settore privato negli Usa e la stagnazione in Europa. Troppo pubblico o troppo poco?

Roma. Lady Spread è tornata a ballare nel salone delle feste e nessuno sa chi l’ha invitata. Ma questa ennesima crisi, che sarebbe la terza dal 2007 per gli Stati Uniti, la quarta per l’Europa, è davvero in arrivo?

 

Il problema dello spread non riguarda certo solo i paesi del Mediterraneo (come invece nel novembre 2011), e pochi credono che sia davvero stata la Grecia, con i suoi propositi di ribellione alla troika europea, a riportare in zona allarme il differenziale Btp-Bund, facendo fibrillare i paesi periferici dell’euro. Lo dicono i fatti e lo confermano i giudizi delle agenzie di rating, che tre anni fa declassarono a raffica l’Italia. Lady Spread è volata sì oltre i 200 punti, per poi rilassarsi; ma l’incremento è minore rispetto a Irlanda, Francia, Belgio, mentre il tasso sui decennali è a 2,6: prima del “crac Lehman Brothers”, con le vacche grasse, si oscillava intorno al 3,5. Quanto ai giudizi, Moody’s ha appena certificato la sostenibilità del debito italiano. Dunque stavolta non bisogna guardare in casa, ma scrutare l’orizzonte mondiale. E le impressioni non sono univoche. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, individua un ripiegamento fisiologico dopo un’euforia non giustificata dai fondamentali economici: “Molti operatori cercavano l’occasione per capitalizzare, per poi magari ricomprare a prezzi migliori”. Troppo minimalismo? Aggiungiamo la concorrenza ìmpari dello shadow banking – la finanza ombra descritta sul Foglio del 15 ottobre – alle iper regolate banche soggette in Europa ai controlli della Banca centrale europea e della European banking association, negli Stati Uniti ai rubinetti della Federal Reserve e perfino in Cina agli indirizzi del governo. Su questo punto, a tutte le latitudini, la percezione dell’opinione pubblica è opposta a quella dei banchieri. Per la prima, le banche si ingrassano con il denaro a basso costo della Fed e della Bce, negandolo alle industrie e alle famiglie. I diretti interessati lamentano invece il contrario, compreso il fatto che la domanda di credito privato sia ora al minimo. “La stretta regolatoria”, scrive JpMorgan, “unita ai rendimenti rasoterra di Bund e Treasury Bond americani, sta creando seri problemi di tenuta”.

 

[**Video_box_2**]La gente è abituata a pensare alle banche come a usurai, ma gli ultimi bilanci di Wells Fargo, Citigroup e JpMorgan in America, e l’esito imminente (26 ottobre) degli stress test sempre più duri in Europa, dimostrerebbero il contrario. Credit Suisse parla di “liquidity event”, un problema di liquidità, causato da ribassi imprevisti degli interessi dei titoli di stato americani, dovuti agli ondivaghi annunci della presidente della Fed, Janet Yellen, e al ritorno di capitali sull’America. Scrive un report di Wall Street: “Quello che era un oceano vasto e profondo rischia di prosciugarsi provocando un flash crash, come il 6 maggio 2010, che coincise appunto con un rovinoso crollo di Borsa”. Spiegazioni controcorrente, ma è pur vero che gli utili delle banche vengono dall’investimento del capitale proprio – che oggi dà rendimenti minimi – e dagli interessi sui crediti ai grandi clienti: e la massa di obbligazioni societarie, che prima del 2007 dava tassi dal 5 all’8 per cento, oggi si è in pratica dimezzata. Eppure la ripresa negli Stati Uniti è stata forte, mentre l’Europa è in stagnazione: due fatti che, per motivi opposti, dovrebbero aver rimesso in moto la domanda di credito. Ma secondo un’analisi sul Wall Street Journal dell’economista Brian Wesbury (che è anche tra i consulenti della Federal Reserve di Chicago), in particolare l’Eurozona vede i governi sostituirsi alle banche nello spendere più denari pubblici oggi che prima del 2008. E dunque, osserva il liberista Wsj, “il problema non è tanto l’austerità quanto l’eccesso di spesa pubblica”. Anche qui siamo in zona eresia, però Wesbury snocciola cifre: “Nel 2013 i governi dell’euro hanno speso il 49,8 per cento del pil rispetto al 46,7 del 2006. La Francia il 57,1 contro il 56,7 del 2009, al picco della crisi.

 

L’Italia invece è al di sopra della media euro ma sta cambiando linea”. Conclusione: “Negli Usa la spesa pubblica federale e locale è al 36,5 del pil, ancora troppo. Ma essendo molto al di sotto dell’Europa la ripresa del settore privato è più vibrante”. Per quanto odori di zolfo, l’accusa all’Europa di fare troppa spesa pubblica può anche spiegare il disallineamento tra Fed e Bce. Se ne è discusso al summit di ottobre del Fondo monetario internazionale: tra il ritiro di liquidità della Fed e la nuova iniezione di Mario Draghi avrebbe dovuto esserci una sorta di staffetta, ma la frenata della Germania ha fatto sì che la Bce abbia sparato a vuoto i primi colpi. Non si sa se la linea Draghi sarà incoraggiata o ostacolata dopo il tonfo dei mercati. Alla fine resta un fatto: le tre grandi aree economiche del mondo (Usa, Europa e oriente) si muovono  per proprio conto. E questo, forse, potrebbe produrre la vera prossima Grande crisi.

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