Serge Latouche (foto LaPresse)

Inconsistenze teoriche e limiti pratici della “decrescita felice”

Nicola Iannello

Secondo Latouche l’economia è un’invenzione moderna, un modo di pensare il rapporto tra l’uomo e il mondo ignoto alle civiltà precedenti e alle culture altre. Falso è l’assioma della scarsità, provvedendo la natura in modo spontaneo ai nostri bisogni, come testimonia la vita dei nostri antenati dell’età della pietra.

L’arsenale degli avversari della società aperta e del libero mercato non è mai vuoto. Anche se le armi si rivelano spuntate e le munizioni fanno cilecca, sempre nuove se ne aggiungono. La proposta della “decrescita” ha guadagnato la ribalta del dibattito pubblico, soprattutto a opera di Serge Latouche che la qualifica con l’aggettivo “serena” (quella felice è il marchio di Maurizio Pallante). Intendo presentare criticamente i contenuti della decrescita, con particolare riguardo ai presupposti e ai riferimenti teorici del pensiero dello studioso francese. La condanna del capitalismo da parte di Latouche, infatti, affonda le radici in una tradizione di stampo collettivistico che ha sempre rifiutato la libertà individuale di scelta. La decrescita si rivela così come l’ennesima incarnazione di un filone di pensiero che mette in discussione le acquisizioni della modernità, senza fornire un’alternativa credibile, al di là di proclamazioni generiche e a volte anche ridicole. (…)

 

Che cos’è la decrescita? In estrema sintesi, si tratta di una specie di ecosocialismo. Lo sviluppo economico è messo in discussione in quanto tale: una crescita infinita non ha senso in un pianeta finito. Il livello di produzione e consumi raggiunto mette in crisi le capacità di riproduzione della biosfera. Latouche predica quindi l’uscita dall’economia, dal capitalismo, dalla modernità, opponendosi all’occidentalizzazione del mondo. Il nostro immaginario sarebbe stato colonizzato da concetti che vengono spacciati per naturali, ovvero astorici, mentre si tratta di ridare spazio al politico (come se ce ne fosse bisogno…) e al sociale. La società moderna è basata sulla dismisura, sulla distruzione sociale e ambientale, sul calcolo economico e l’accumulazione di capitale; ne conseguono concorrenza spietata, disuguaglianze, saccheggio della natura, omnimercificazione del mondo. (…)

 

Secondo Latouche l’economia è un’invenzione moderna, un modo di pensare il rapporto tra l’uomo e il mondo ignoto alle civiltà precedenti e alle culture altre. Falso è l’assioma della scarsità, provvedendo la natura in modo spontaneo ai nostri bisogni, come testimonia la vita dei nostri antenati dell’età della pietra. Sulla base di queste premesse di stampo rousseauiano, lo studioso francese può sferrare il suo attacco contro i diritti di proprietà: la proprietà privata non è una risposta al problema della scarsità ma la sua causa. La recinzione delle terre comuni (enclosures) ha creato una miseria che prima non c’era (semmai c’era la povertà, non disgiunta da una sobrietà che la rendeva un fatto positivo). Jean-Jacques Rousseau e Karl Marx vanno a braccetto, in un quadro che farebbe la felicità di Ugo Mattei e delle sue amenità sui beni comuni. (…) Nel mirino di Latouche c’è la megamacchina della globalizzazione, in cui un’oligarchia plutocratica di aziende multinazionali e lobby muove i governi nazionali come burattini. (…)

 

I riferimenti teorici di Latouche annoverano alcuni classici: Émile Durkheim e l’anomia delle società industrializzate, l’antropologo del dono Marcel Mauss, il Karl Polanyi della Grande trasformazione. Spicca anche una serie di maîtres à penser, quasi tutti francofoni, a dimostrare anche lo scarso respiro della proposta: il Cornelius Castoriadis di “L’istituzione immaginaria della società”, il Nicholas Georgescu-Roegen di “Bioeconomia”, l’Ivan Illich di “Convivialità”, l’André Gorz di “Capitalismo, socialismo, ecologia”. Latouche riesce a citare ancora il Club di Roma e il suo sciagurato rapporto sui limiti dello sviluppo. (…) Cosa c’è oltre la critica dell’esistente? Questi i punti del “programma”, enunciati nei testi più recenti di Latouche: tornare alla produzione materiale degli anni 60-70; internalizzare i costi di trasporto aumentando il prezzo dei carburanti (Latouche vagheggia esplicitamente una società senz’auto né aerei); rilocalizzare le attività; incentivare l’agricoltura contadina al punto da diventare un settore che occupi il 10-20 per cento della popolazione, contro il 3-5 per cento odierno; trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi (Latouche auspica una giornata lavorativa di due ore); produrre beni relazionali, ovvero non misurati economicamente; ridurre lo spreco di energia; penalizzare le spese di pubblicità; una moratoria sull’innovazione tecnologica; riappropriarsi del denaro mediante monete regionali.

 

[**Video_box_2**]Questo programma fa il paio con le otto “erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. (…) Tutta questa riflessione mette capo alle linee guida di una società della decrescita: nessun debito pubblico, in quanto le entrate coprirebbero le spese; imposte dirette progressive, con fissazione di un reddito massimo legale; imposte indirette sui beni di lusso; acqua, gas, ecc. a prezzo progressivo; tassa patrimoniale. Il tutto con una clausola di salvaguardia geniale: in caso di deficit, emissione di moneta! In sostanza, la decrescita di Latouche è una proposta di una povertà concettuale sconcertante, tanto da domandarsi come ha fatto un’idea del genere ad attrarre tanti seguaci. Ma qui si aprirebbe il discorso del successo delle ideologie anticapitalistiche e di quanto poco spazio abbiano sul mercato delle idee le idee di mercato. Un altro discorso, appunto.

 

 

Nicola Iannello è fellow dell’Istituto Bruno Leoni. Pubblichiamo stralci dal suo intervento per il seminario “Decrescita: le vecchie ragioni di una nuova sfida al libero mercato” che si è tenuto oggi a Milano (vedi www.brunoleoni.it)