Matteo Renzi (foto LaPresse)

Tre donne sulla difensiva

Perché la strada per #cambiareverso all'Ue è più ardua del previsto

Marco Valerio Lo Prete

Camusso attacca il Renzi “modello Thatcher”, Merkel imbriglia Moscovici e la belga Thyssen ora lo depotenzia.

Roma. Il 28 febbraio 2013, l’allora commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, tornava a sostenere in pubblico le ragioni del rigore fiscale nei paesi dell’Europa periferica, Italia inclusa. Aggiungeva che nemmeno John Maynard Keynes, di questi tempi, sarebbe stato così “keynesiano” come lo dipingono i fautori della spesa pubblica. Il finlandese non temeva certo di essere etichettato ancora una volta come il “falco rigorista” che fa da “stampella” all’ortodossa Berlino. Proprio in quei giorni infatti si concludeva il trasloco degli 800 uomini della sua Commissione (Dg EcFin, in burocratese) dalla banlieue di Bruxelles all’edificio “Charlemagne” a Schuman, quartier generale delle istituzioni comunitarie che contano. “Le persone più importanti ottengono il posto vicino al re”, commentava il Wall Street Journal. E la Dg EcFin, durante la crisi dell’euro, a volte è parsa addirittura oscurare il re. José Manuel Barroso, chi? Tutti ricordano soltanto i rimbrotti di Rehn: ora più rigore in Grecia, poi più riforme in Italia, quindi più rigore e più riforme in Francia… E’ per questo che il presidente socialista, François Hollande, aveva trasformato in un punto d’onore la conquista della Commissione per gli Affari economici e monetari per il suo ex ministro delle Finanze, Pierre Moscovici.

 

L’Italia lo ha sostenuto, in nome dell’Europa che non è “soltanto spread”. La cancelliera tedesca Angela Merkel invece era “inorridita” all’idea, racconta ora l’Economist, ma ha accettato. Adesso che Moscovici ha ottenuto la postazione nella futura Commissione di Jean-Claude Juncker, si scopre però che sarà costretto a “trovare una sintesi” col vicepresidente lettone (rigorista) Valdis Dombrovskis, o nel migliore dei casi con un altro osso duro finlandese, il vicepresidente (ed ex primo ministro) Jyrki Katainen. E non è finita. In queste ore, secondo la ricostruzione del Foglio, i futuri dirigenti e dipendenti di Moscovici sarebbero in allarme non tanto per il “commissariamento soft” dei falchi, quanto per una parallela operazione di “depotenziamento” della ex potentissima Dg EcFin: Renzi, presentando la sua riforma del lavoro in Ue, sarà il primo a doverci fare i conti. Ecco perché.


[**Video_box_2**]Juncker, presentando la nuova squadra che guiderà l’esecutivo Ue dal prossimo mese fino al 2019, ha usato toni diplomatici per descrivere il “coordinamento” obbligato di Moscovici con i tutor rigoristi. Ha ricordato che Moscovici d’ora in poi si occuperà pure di fisco e dogane. Poi però, nella documentazione ufficiale, ha scritto qualcosa che adesso gli eurocrati del palazzo Charlemagne leggono e rileggono con un pizzico d’apprensione: “Unit ECFIN B3 (Labour Market Reforms) moves from ECFIN to DG Employment, Social Affairs and Inclusion (EMPL)”. Tradotto: la supervisione delle riforme del mercato del lavoro, prima appannaggio della potentissima Dg EcFin, diventa competenza della Commissione per il Lavoro e gli Affari sociali. Per alcuni funzionari che  erano alle dipendenze di Rehn ciò equivale al trasferimento coatto da quello che finora era “the place to be” a Bruxelles, anche se la Commissione – contattata dal Foglio – dice di non essere ancora in grado di quantificare il numero di spostamenti. Per il socialista Moscovici, invece, equivale a un depotenziamento non da poco. Gli rimane la sorveglianza dei conti pubblici, seppure da condividere coi vicepresidenti “falchi”, mentre perde due leve importanti della politica economica. Non solo le competenze in materia finanziaria che passano al commissario inglese Jonathan Hill (frutto della trattativa di David Cameron), ma anche la politica del lavoro di cui in futuro si occuperà Marianne Thyssen, conservatrice fiamminga con passaporto belga. Ora è pure con lei che il governo Renzi se la dovrà vedere per la valutazione del Jobs Act che l’esecutivo esige sia approvato dal Parlamento entro il 15 ottobre, così da poterlo presentare a Bruxelles insieme alla Legge di stabilità. Una riforma radicale del mercato del lavoro, secondo l’esecutivo, sarà utile per ottenere un po’ di flessibilità sui conti pubblici (che non migliorano mentre il pil scende). Adesso che la Merkel ha imbrigliato a dovere Moscovici, e che i tedeschi hanno conquistato un numero crescente di posti chiave tra Commissione (“la Germania, come suo solito, insiste e conquista spazi sulle ‘seconde file’, quelle dei capi di gabinetto e degli staff”, dice al Foglio un diplomatico italiano) e Parlamento Ue (Klaus Welle, della Cdu, è il segretario generale), gli sconti sul rigore si pagheranno più cari. Specialmente se Renzi, emanando i decreti attuativi della delega sul lavoro, si farà frenare dagli impeti di una terza donna, Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che ieri l’ha accusato di “avere un po’ in mente il modello Thatcher”.