Manuel Valls alla Festa dell'Unità di Bologna (foto LaPresse)

A spasso con Valls

Paola Peduzzi

Il premier francese non legge Piketty, ha un piano con Renzi e non osa toccare le 35 ore.

Bologna. Applaudite, applaudite forte, quando dico che le aziende sono “indispensabili” per creare lavoro, applaudite in modo che vi sentano a Parigi, che vi senta la sinistra francese, magari così la smette di discutere, litigare, tormentarsi su questa questione. Manuel Valls è salito sul palco della Festa dell’Unità di Bologna, ha parlato in italiano (“in italiano?”, avevano chiesto smarriti i cronisti televisivi francesi alla mattina, quando era arrivato l’annuncio ferale da parte del portavoce di Valls, Harold Hauzy, anche lui in camicia bianca: con quel caldo che appiccicava anche i pensieri, con le corse, le telecamere in groppa, tra stand e militanti e milioni di selfie, ci mancava giusto il testo da sottotitolare in francese) e ha pronunciato un discorso potente, di sinistra e per la sinistra, lui che è da sempre sospettato di essere di destra, e invece è soltanto liberale. Davanti al popolo renziano che rispondeva al suo italiano con tanti “bravò bravò”, tu sai la nostra lingua noi sappiamo la tua, il premier francese ha fatto una prova generale, più sudaticcia e più appassionata, del discorso che terrà il 16 settembre davanti all’Assemblea nazionale, quando chiederà la fiducia per il suo governo, il Valls II, nato dopo le dimissioni del 25 agosto, il nuovo incarico, il rimpasto.

 

All’appuntamento degli Eurodem organizzato da Matteo Renzi a Bologna, Valls era, assieme al premier italiano, un leader della sinistra europea al governo, con gli stessi problemi di crescita e di disoccupazione, ma a differenza “dell’amico Matteo”, con in più un grave problema di popolarità. La riscossa della gauche in Europa al potere era partita proprio dalla Francia, forte della vittoria di François Hollande alle presidenziali del 2012: quella magia, quella speranza, è andata consumandosi tra i tentennamenti del presidente, il deficit, la disoccupazione, le riforme in ritardo, le liti, le tentazioni nazionaliste, i salvataggi di stato, i conflitti con l’austerità tedesca che detta legge in Europa. Valls è stato tormentato dai giornalisti a Bologna sui sondaggi devastanti, che danno Hollande al 13 per cento e che registrano un contagio negativo sul governo. “Non voglio parlare di sondaggi – ha ripetuto Valls  – ci sono gli appuntamenti elettorali a definire chi sono i leader e chi li sostiene. La sinistra soffre di una crisi di identità, ma non è guardando i sondaggi che li risolveremo”. E’ certo meglio ignorarli, quei numeri deprimenti, e quando Valls parla con il Foglio, passeggiando sulla via di fronte al palco tra effluvi di salamelle, ribadisce con un gesto della mano che i sondaggi-chissenefrega, “ci sono idee da difendere e da mettere in pratica, con il confronto continuo, ma anche e soprattutto facendo quel che è necessario”.

 

Si sente l’eco, nelle parole di Valls, di quel che dicevano i leader della terza via, i Blair e gli Schröder, facciamo quel che è necessario non quel che è popolare, e anche se nel caso di Valls sembra un po’ di ascoltare la volpe con l’uva, la determinazione del premier è, ancorché disperata, genuina.

 

[**Video_box_2**]L’obiettivo è l’unità della sinistra, concetto che a Bologna è scritto su tutti i muri, e che a Valls fa gioco per la battaglia che lo aspetta a Parigi, dopo quello che il Monde chiama “l’interludio italiano” (“ho bisogno della vostra forza e della vostra gioia”, ha quasi urlato Valls dal palco). La gauche è alla prova della realtà, deve restare fedele ai suoi valori ma non nascondere la sua anima progressista, e per farcela si deve stare assieme, combattere assieme, in particolare quando dall’altra parte c’è una signora di nome Angela. I dogmi e i paletti che tengono la sinistra prigioniera del passato, vanno superati, come vuole quella gauche concreta e moderna rappresentata anche dal neo ministro per l’Economia, il trentaseienne Emmanuel Macron che spacca il Partito socialista allontanandolo, con il suo profilo di banchiere liberale, dalle tentazioni stataliste – cosa ci dice del ministro? Sorride Valls con un guizzo negli occhi, “l’abbiamo scelto, farà benissimo”, ha risposto uscendo dal ristorante dove ha mangiato i tortellini con gli altri leader invitati alla festa, e ha ripassato il discorso, con la gente che lo riconosce, “ah, il francese, l’ho visto sui giornali” e poi si dà di gomito: ma che fa il presidente con la sua ex compagna, che vendicativa che è lei, che figuraccia che ha fatto lui. In cosa consiste allora questa rifondazione senza etichette della sinistra francese (appena si dice socialdemocrazia s’alzano ululati, vi prego non fateci litigare ancora)?

 

Valls ci spiega che c’è un progetto globale e ce n’è uno locale, “la crescita è la priorità, che due paesi come la Francia e l’Italia devono perseguire insieme”, combattendo il rigore senza se e senza ma perorato da Berlino, “con criteri di flessibilità che ci permettano di fare le riforme”, di creare posti di lavoro, di ridurre le tasse, di evitare che poi a vincere sia la diseguaglianza e senza affossare economie già in grande affanno (la francese Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, ieri in un’intervista a Les Echos ha detto che bisogna fare in fretta con le riforme). “I margini di manovra sono ristretti, ma il cambiamento lo portiamo avanti”, ha detto Valls dal palco, e l’ha ripetuto a chi gli chiedeva come si fa a fare riforme quando si è tanto impopolari. Solo così “si sblocca l’Europa”, con una forza che a oggi, ci dice Valls, “è ancora minoritaria”, il capo della commissione europea è il popolare Jean-Claude Juncker, ma “abbiamo molte sedi per difendere le nostre idee”. Sul palco con gli Eurodem c’era Federica Mogherini, la ministra degli Esteri italiana nominata a capo della diplomazia europea, che è la prova provata – e disidratata, cercava sempre acqua – della forza dei socialisti europei. L’alternativa poi qual è?, chiede Valls, fornendo la sua risposta, serrando le labbra come fa spesso, è magro e nervoso il premier francese, e non s’è cambiato la camicia, lui, anche se il suo staff gliel’ha più volte proposto: “L’alternativa non è una nuova sinistra, una sinistra diversa da questa, con qualche nome nuovo che ci possiamo inventare: l’alternativa è l’estrema destra, una forza che ci isola, che non si integra”, che non può salvare la Francia, anche se Marine Le Pen, leader del Front national, s’è infilata rapida nell’ultimo valzer di disastri socialisti dicendo che devono andare tutti a casa, non rappresentano più nessuno, nemmeno le loro mogli. Il mitterrandismo, che poi vuol dire inclusione, non andrà a morire, ma dovrà evolvere.

 

Riforme, leggi per la crescita, incentivi alle aziende, conti in ordine, responsabilità – è questa la parola più utilizzata da Valls, in ogni occasione, soprattutto ora, che non si tratta soltanto di crisi d’identità, la nostra, in Francia, è “una crisi morale” – ma le 35 ore le abolite sì o no, per distribuire bisogna produrre, per produrre un pochino di più si dovrà lavorare un pochino di più, giusto? Alza gli occhi al cielo Valls, come a dire “ancora con questa domanda”, forse sta per esplodere, serra ancora le labbra, ma ritorna accondiscendente e dice: “Le 35 ore non sono nemmeno in discussione”, lo fa con un tono che non lascia spazio ai “ma è stato il suo Macron a dire che vanno riviste!”, e poi spiega che la flessibilità sul posto di lavoro è già contenuta in molte leggi, come se le 35 ore fossero un feticcio dei media, e non una delle più grandi conquiste dei socialisti negli anni Novanta. Comunque sia, le 35 ore non saranno modificate, non ora almeno, non sono candidate a essere per la sinistra francese quel che è stata “la clausola 4” per la sinistra inglese, cioè la nascita del “New Labour” di Tony Blair e della grande rottura con la sinistra radicale.

 

I paragoni, si sa, non piacciono troppo a questi nuovi leader, noi siamo noi, dicono, e anche lo stesso Hollande, in uno dei suoi discorsi sulla svolta socialdemocratica in arrivo, ha sempre evitato i paragoni: Blair è inglese ed è tutta un’altra faccenda (nota a margine: Ed Miliband, che ora guida il Labour inglese senza più il “new”, non ha accettato l’invito alla festa a Bologna: c’è in corso il dramma scozzese, ed è un buon motivo per non distrarsi troppo, ma forse c’è anche una certa freddezza nei confronti di una sinistra che sta cercando di produrre idee e di fare massa, freddezza che a giudicare i commenti dei giornali inglesi, nonché i maledetti sondaggi, sulla leadership di Ed Miliband non pare una scelta molto azzeccata) e Schröder non è mai stato in buoni rapporti con il presidente francese. Valls non viola la regola, “Blair e Schröder sono stati molto coraggiosi”, dice, ma i modelli sono fatti anche di altro, non soltanto di una fratellanza politica e di un’aspirazione riformatrice, c’è la propria storia, la propria tradizione, il proprio paese.

 

Quali sono allora i riferimenti di Valls se l’apparentamento con i due coraggiosi si fa sì, ma con la massima cautela? “Due grandi uomini, come George Clemenceau e Maurice Faure”, risponde continuando a camminare e a fare cenni a chi lo saluta. Due leader forti, ecco qual è l’ispirazione: Clemanceau era soprannominato “la tigre”, e a luglio Valls si è fatto intervistare da Rtl in quello che era stato, all’inizio del secolo scorso, l’ufficio dell’ex ministro dell’Interno, all’Hôtel de Brienne, che oggi ospita il ministero della Difesa (le foto di Valls con il busto della Tigre hanno fatto il giro di Francia): in queste stanze, il “padre della vittoria” organizzò l’offensiva che nel 1917 portò al successo delle truppe alleate. Un leader di guerra, un leader di battaglia, come Maurice Faure, scomparso a marzo, poco prima che Valls fosse chiamato da Hollande per un salvataggio d’emergenza: a Bologna, il premier francese ha spiegato chi era Faure anche a Pedro Sanchez, leader dei socialisti spagnoli, e a Diederik Samsom, capo dei laburisti olandesi, mentre aspettavano il momento di salire, uno per uno, sul palco, poco prima che Renzi arrivasse a cambiarsi la camicia e tutti abbassassero gli occhi sulla propria, scuotendo la testa, ci vorrebbe una doccia, altroché. Per definire Faure, Valls ricorda che era stato per soli quattro giorni ministro dell’Interno nel 1957, poco prima dell’arrivo di De Gaulle, e aveva soltanto 36 anni, ma era già tra i firmatari del Trattato di Roma che ha fondato la Comunità europea. Un altro lottatore, in silenzio durante gli anni gollisti e poi di nuovo in battaglia grazie all’amicizia con François Mitterrand. Il Pantheon di Valls non è fatto per celebrare la sinistra, insomma, è per i leader, i combattenti, le tigri.

 

Stiamo per arrivare all’uscita del Parco nord, s’intravedono le auto che aspettano Valls, c’è solo il tempo per due battute sulla rockstar della Francia, l’economista che ha conquistato le copertine dei magazine internazionali, l’uomo con la camicia sbottonata, le maniere dure con le donne e una capacità rara di incamerare dati: Thomas Piketty. Ha letto il suo libro, Mr Valls? “No”, risponde senza mostrare il minimo imbarazzo. Ma come no? “Eh ma ci vuole tantissimo tempo”, dice, confermando quel che già sapevamo, da sempre, e cioè che alla fine, nonostante le chiacchiere e l’ansia (non si trova più Piketty nemmeno su Amazon, lo stanno ristampando, ma su Kindle è improponibile, con le tabelle), nessuno le ha lette le quasi mille pagine de “Le capital au XXIe siècle”. “Però ovviamente so di cosa parla – dice Valls – Ne abbiamo discusso tanto. Pone una questione molto importante, che è quella della diseguaglianza”. Sì, certo, e arriva a dire che nel sistema capitalistico l’accumulazione di ricchezza andrà sempre a vantaggio dei più ricchi, che andrebbero tassati, e in Francia qualcosa di simile è accaduto, e la fuga dei capitali e dei miliardari sta ancora facendo gridare di gioia il sindaco di Londra, Boris Johnson, che ha accolto a braccia aperte i francesi a caccia di una minore tassazione. Cioè la rockstar dell’economia sintetizza molti dei traumi interni alla sinistra (non soltanto francese), quelli di cui Valls non vuole parlare – “la gauche è forte quando parla ai cittadini, non quando parla a se stessa” – ma Piketty val bene un commento: “Usa troppo l’arma fiscale, e poi riguarda soprattutto per gli Stati Uniti”.

 

Poi scivola via, richiamato dal suo portavoce Harold Hauzy, che per tutto il giorno ha fatto avanti e indietro tra le richieste dei giornalisti, briefing e le questioni organizzative (al suo tavolo, durante il pranzo, sarà stato seduto cinque minuti, non di fila) e che tra i “ragazzi di Valls” è conosciuto come la “plume”, scrive i discorsi, fin dai tempi di Place Beauvau. Hauzy saluta, sorridendo, così come il capo di gabinetto di Valls, quel Sébastien Gros di cui tutti parlavano, perché ha 33 anni ed è tostissimo, il più bravo dicono i beninformati che lo hanno visto all’opera, ma soprattutto perché “è quello con la t-shirt”, e il particolare sembrava importante (in realtà quella t-shirt lo faceva sentire a suo agio dappertutto, e vale anche per i suoi interlocutori, persino quelli con le richieste più stravaganti), quasi più importante dei jeans neri di Valls, che all’inizio sembravano parte di un abito, e invece erano casual e trendy, persino un po’ stretti in fondo, giovanili, come s’addice a un protagonista della festa di Renzi. Per la cronaca, la marca è Teddy Smith: nulla sfugge in una giornata al seguito della corte di Francia.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi