Il ministro della Difesa d’Israele, Moshe Yaalon, visita uno dei tunnel di Hamas a Gaza

Il cacciatore

Giulio Meotti

Quando uccideva terroristi lo chiamavano “Bogart”. Nel tempo libero Yaalon, ministro della Difesa d’Israele, pulisce le stalle.

Ventitré luglio 2002: Salah Shahade, comandante militare di Hamas. 22 marzo 2004: Ahmed Yassin, fondatore di Hamas. 17 aprile 2004: Abdel Aziz al Rantissi, capo politico di Hamas. 21 ottobre 2004: Adnan al Ghoul, padre dei missili di Hamas. 19 agosto 2014: Mohammed Deif, capo militare di Hamas. 21 agosto 2014: Raed al Attar, Mohammed Shmallah e Mohammed Barhoum, tre dei maggiori comandanti di Hamas.

 

Cosa avevano in comune tutti questi terroristi palestinesi saltati in aria? Un signore alto, calvo, con una laurea in Scienze politiche, oggi un po’ sovrappeso, ma il cui nome è negli annali dell’eroismo israeliano. C’è chi lo paragona al “Dottor Stranamore”, interpretato al cinema da  Peter Sellers, e non soltanto per gli occhiali. Si tratta di Moshe “Bogie” Yaalon.

 

Gli ultimi due omicidi mirati, che hanno segnato la nuova guerra di Gaza, Yaalon li ha ordinati da ministro della Difesa. I precedenti, durante la Seconda Intifada, li ha diretti da capo di stato maggiore, il “ratmakal”. In pratica, Yaalon ha liquidato la dirigenza del terrorismo palestinese. Di solito sono operazioni chirurgiche. Una, quella contro il feroce Shahade, andò male. Nell’attacco persero la vita tredici civili, fra cui otto bambini palestinesi. Per anni Yaalon è stato inseguito da un mandato di cattura della magistratura spagnola.

 

Alcuni giorni fa Yaalon ha riunito una dozzina fra analisti, ufficiali e politici nella centrale dello Shin Bet, il servizio segreto interno. Sono le due di notte. Due caccia F16 bombardano un palazzo di Rafah. Muoiono due fra i più ricercati capi militari di Hamas. Avevano commesso l’errore di uscire dalla clandestinità dopo giorni trascorsi sotto terra. Schermi al plasma e informazioni di intelligence in diretta fornivano agli ufficiali israeliani presenti una sorta di diretta dell’operazione. Yaalon autorizza l’operazione, in accordo con il premier Benjamin Netanyahu.

 

Caduta in disgrazia la stella di Ehud Barak, oggi splende quella di Yaalon. Nessun altro israeliano incarna l’establishment di sicurezza e militare meglio di lui. Secondo Yaakov Katz, autore di “Israel vs. Iran”, “Yaalon ha diretto la guerra globale di Israele al terrorismo, di cui molte operazioni restano segrete”. Agli occhi dell’israeliano medio, Yaalon è l’uomo che ha fermato il terrorismo suicida durante la Seconda Intifada. E’ lui “Mar Bitachon”, Mister Sicurezza, il massimo onore per un politico israeliano. “L’opinione pubblica vede i militari come coloro che sono in contatto con il cuore dell’esistenza di questo paese”, ha scritto Shevach Weiss, scienziato della politica ed ex speaker della Knesset.

 

Sotto il comando di Yaalon, Israele ha attraversato i momenti più difficili: la guerra in Iraq del 2003, la morte di Yasser Arafat, gli omicidi mirati dell’Intifada, il ritiro da Gaza (Yaalon fu “dimesso” da Ariel Sharon per la sua opposizione all’evacuazione dei coloni) e adesso la guerra più lunga e intestina contro Hamas. Eppure, degli eroi di Israele è il più umile e meno chiacchierato sulla stampa. Si dice che l’ex premier Yitzhak Rabin lo ammirasse molto per il suo coraggio ma soprattutto per la sua integrità. E infatti il ministro della Difesa, quando non vive nel kibbutz, risiede in un modesto appartamento a Modiin. Nulla a che vedere con il lussuoso grattacielo Akirov di Tel Aviv, dove viveva il suo predecessore, Ehud Barak. Si torna piuttosto alla modesta casa in legno con il tetto verde in un kibbutz del deserto, dove il fondatore del paese David Ben-Gurion trascorse gli ultimi anni e dove lavorava quattro ore al giorno alla fabbricazione di formaggi, come un qualsiasi “haver” (compagno) della comunità. O all’appartamentino di Tel Aviv dove il suo rivale, il borghese Menachem Begin, ha sempre vissuto con la moglie.

 

Il padre di Yaalon arrivò in Israele nel 1925, fuggendo dalle persecuzioni bolsceviche in Russia (il ministro ha ebraizzato il cognome da Smilansky). Uno dei suoi fratelli venne ucciso dai cosacchi e un altro venne sbattuto in un gulag per “attività sioniste”. La madre era una partigiana che raggiunse l’allora Palestina sotto mandato britannico partendo dall’Italia. Da quei genitori Yaalon avrebbe preso una passione e il talento per le operazioni clandestine, durante le quali il suo nome in codice è “Bogart”, dal nome del celebre attore ma anche per scimmiottare quello del futuro ministro, “Bogie”.

 

Yaalon è il capo della Difesa meno diplomatico della storia. Quando lasciò il Pentagono d’Israele, nel 2005, disse che avrebbe indossato gli scarponi per evitare di farsi pungere dai serpenti. Mesi fa, invece, ha detto al capo della diplomazia americana, John Kerry, di “vincere un Nobel” e di lasciare in pace gli israeliani. Yaalon è cresciuto a Kiryat Haim, il sobborgo operaio e socialista di Haifa. Il padre lavorava in fabbrica. Una famiglia povera, poverissima. Non avevano biciclette, auto, televisore o telefoni. “Sono cresciuto ad acqua e pane nero, il più economico”, scrive il capo della sicurezza d’Israele in un libro pubblicato alcuni anni fa sotto il titolo ebraico di “Derekh aruka ktzara”. Traducibile come la via lunga più corta.

 

Da ragazzo, Yaalon entra in Noar Ha’oved, un movimento collettivista di sinistra, composto in gran parte da idealisti. A Yaalon danno una missione: insediarsi e lavorare nel deserto di Arava, una immensa landa pietrosa, senza acqua né vita. Anche a chi ha visto i più desolati deserti del mondo, l’Arava incute un senso di smarrimento pauroso. A sorvolarlo verso sud, è un susseguirsi di distese bruciate in una gamma di colori dal giallo al marrone al grigio. Solo di tanto in tanto, come smeraldi nella polvere rossastra, spiccano i riquadri verdi dei campi del suo kibbutz. In nessun altro posto, nemmeno nella divisa Gerusalemme, la difficile posizione geografica di Israele appare in tutta la sua drammatica evidenza come lì. Il deserto dove arriva il giovane Yaalon è dominato a oriente dalle montagne della Giordania, il cui porto di Aejaba è visibile a qualche chilometro appena; poco più a sud, comincia a snodarsi la sterminata, arida distesa di alture e di coste dell’Arabia Saudita; a occidente, è subito l’Egitto col Sinai dai brucianti ricordi. In quel deserto, Yaalon e un manipolo di altri pionieri ci si insedia, lo coltiva, ci porta gli animali, fa fiorire la terra dove Abramo stipulò il patto con Abimelech, Rebecca fu turbata dall’inviato di Isacco e Giacobbe disseminò le tende della famiglia.

 

Ancora oggi, Yaalon si considera un kibbutznik. “Se mi chiedono da dove vengo rispondo: kibbutz Grofit”. Di fatto, Yaalon è l’unico membro di kibbutz che ricopra ruoli strategici nella leadership d’Israele. Nel kibbutz, Yaalon è l’addetto alle stalle. E non teme di indossare i sandali tipici dei kibbutznikim nemmeno nelle riunioni politiche. Nel suo ufficio, Yaalon tiene due fotografie: l’immagine di una falce, simbolo del duro lavoro nei campi, e quella che ritrae un caccia F15 israeliano che sorvola il campo di sterminio di Auschwitz, dove ha perso l’intera famiglia della madre.

 

Yaalon è tutta la vita che dà la caccia ai terroristi. Come ha scritto il giornalista israeliano Ronen Bergman, “Moshe Yaalon fa parte di un pugno di leader israeliani, assieme agli ex premier Yitzhak Shamir ed Ehud Barak, che ha personalmente preso parte alle uccisioni mirate”. L’ex capo di stato maggiore, l’archeologo Yigael Yadin, diceva che “in Israele un civile è un soldato con undici mesi di congedo”. La linea che separa militari e civili è da sempre sottile.

 

Fu Yaalon nel 1978 a guidare sul campo l’“Operazione Litani”, l’incursione delle teste di cuoio contro il centro di comando dei terroristi palestinesi a Ras-Biada, e su fino a Tiro. C’è sempre Yaalon a guidare l’operazione “Shalechet”, contro le installazioni costiere dell’Olp di Arafat. Missioni spettacolari in quella che gli israeliani allora chiamavano “Eretz hefker”, terra di nessuno. Allora Yaalon era il comandante delle Sayeret Matkal, i migliori dell’esercito israeliano, le teste di cuoio al centro delle più difficili e spettacolari operazioni. Una unità mutuata sulle Special Air Service, inglesi, il corpo istituito nel lontano 1941, durante la guerra mondiale dunque, per creare “fastidi” con il sabotaggio all’esercito germanico di Rommel impegnato in Africa. Anche il motto delle Sayeret è mutuato da quello inglese “Who dares wins”. Ossia, chi osa vince.

 

In Libano, Yaalon condusse un’unità di “mista’aravim”, ovvero “diventare come gli arabi”. Sono chiamati così i soldati israeliani che vestono come i palestinesi, parlano con il loro accento, pensano come loro. Soprattutto Yaalon nel 1988 era su una spiaggia di Tunisi, a guidare e forse premere il grilletto che ha ucciso Abu Jihad, il capo militare dell’Olp.

 

Tutto fu fatto con gran rapidità. Una squadra di tre uomini del Mossad, parlanti l’arabo, entrò in Tunisia con falsi passaporti libanesi, ispezionò il luogo dove il commando di Yaalon doveva colpire e prese in affitto tre automezzi per il trasporto del commando. Entra in scena un aereo. Aziona le apparecchiature di disturbo elettronico per isolare i telefoni di Sidi Bou Said, il villaggio sul mare dove risiede Abu Jihad. Un commando composto da trenta uomini, trasportato da una vedetta lanciamissili della marina israeliana, sbarca sulla spiaggia a bordo di gommoni, viene caricato sui tre automezzi e raggiunge la casa di Abu Jihad. Su una delle barche, c’è anche il futuro primo ministro Ehud Barak. Il capo dei terroristi palestinesi muore con la pistola in pugno, guardando in faccia Yaalon. L’attacco è messo a segno innanzi agli occhi terrorizzati di sua moglie e dei due figli che con la donna dormivano in una stanza vicina allo studio di Abu Jihad. Del commando avrebbe fatto parte anche una donna, bassa e bionda. Israele ha riconosciuto di essere stato dietro l’operazione soltanto un anno fa.

 

La scelta naturale di Yaalon sarebbe stata quella di lanciare la sfida per la leadership del Partito laburista. Ma gli anni nell’esercito lo hanno spinto nel 2008 ad abbracciare il Likud, con grande sorpresa dei compagni di kibbutz. Si dice che la sua conversione sia avvenuta quando Yaalon guidava l’“Aman”, il servizio di intelligence militare. Le conversazioni telefoniche dei capi palestinesi intercettate da Yaalon lo avrebbero convinto definitivamente che dall’altra parte non esiste partner per la pace, che gli arabi vogliano soltanto distruggere Israele. Sui negoziati con i palestinesi, il kibbutzim è un super falco: “Fintanto che l’altra parte non riconoscerà il nostro diritto all’esistenza come stato del popolo ebraico non sono pronto a cedere un millimetro di terra”.

 

Yaalon non è un oltranzista. Piuttosto è un pragmatico di destra e un cerebrale. Nei corridoi del potere israeliano si dice che il cacciatore di terroristi sia pronto a prendere le redini del Likud una volta tramontata la stella del primo ministro Benjamin Netanyahu.

 

A chi gli chiede una definizione di sé, Yaalon risponde così: “Generale e agronomo”. I terroristi e la terra. Entrambi da aggredire in quella “villa nel deserto” che è Israele.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.