Il convoglio umanitario russo a Izvaryine, nell'Ucraina orientale (Foto Ap)

Il gioco dei convogli

Anna Zafesova

Putin non può avere una guerra e non può fare compromessi. Restano le tattiche diversive in Ucraina.

Milano. Mosca continua a vivere in un mondo che appare diverso da quello di tutti gli altri. Mentre l’esercito ucraino cerca di bloccare l’avanzata di due colonne blindate russe sul suo territorio – e, se queste notizie venissero confermate, si tratterebbe probabilmente del primo scontro diretto e non per interposta persona tra militari di Kiev e Mosca – il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov annuncia che il suo principale, Vladimir Putin, vuole parlare con il suo collega ucraino della “terribile situazione umanitaria” nelle regioni della rivolta filorussa. E il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov annuncia l’invio di un secondo convoglio umanitario in Ucraina, dopo il “successo” del primo. L’agenda dell’incontro a tre – Unione doganale (leggi Putin), Unione europea e Ucraina – che si terrà oggi a Minsk intanto resta incerta, e Peskov non conferma nemmeno un faccia a faccia tra Putin e Petro Poroshenko, aggiungendo però subito che, anche se i due presidenti si parlassero, “difficilmente riuscirebbero ad affrontare tutti i problemi in un solo colloquio”.

 

Il leader di Kiev va a Minsk per “cercare la pace, tutto il mondo è stanco della guerra”. Ma non Mosca, che continua a non mettere sul tavolo la sua lista di richieste. Kiev e l’occidente chiedono di ritirare l’appoggio ai separatisti e mettere sotto controllo internazionale il tratto di confine di circa 100 chilometri in mano ai separatisti attraverso il quale arrivano i rinforzi. La Russia insiste di non essere una parte del conflitto, che definisce una guerra civile interna all’Ucraina (e il ministro Lavrov sugli sconfinamenti delle truppe russe replica: “Fateci vedere le prove”). Poi però fa capire di volere avere voce in capitolo sul futuro dell’Ucraina, e garanzie sulla sua non adesione alla Nato e possibilmente anche all’Ue. In assenza di obiettivi dichiarati mettersi d’accordo diventa ancora più difficile. Per capire cosa vuole la Russia bisogna rivolgersi alla mappa geografica: le due direzioni dell’attacco di ieri puntavano a nord a colpire alle spalle le truppe ucraine che hanno circondato la città di Donetsk e a sud a riconquistare Mariupol’ sul mare di Azov.

 

Come spesso succede, i leader separatisti dicono quello che Mosca pensa e ieri il vicepremier dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk Andrei Purgin ha promesso di riconquistare l’accesso al mare. Considerando che la caduta definitiva di Lugansk è questione di giorni, Putin non può avere margine di trattativa a Minsk se la vittoria militare sui suoi sostenitori nell’est ucraino è cosa fatta. Non può scendere a compromessi perché nella tradizione politica russa significherebbe perdere la faccia, e mettere a rischio il super-consenso interno. Non può lanciare una guerra vera che la isolerebbe definitivamente con un’economia che sta andando in recessione. Non resta – dopo il fallimento del piano di una Crimea-bis – che congelare il conflitto almeno in una enclave ribelle, una sorta di Transnistria ucraina attraverso la quale ipotecare il percorso europeo di Kiev.

 

Il gioco dei convogli è funzionale anche a questo. I sospetti degli ucraini che i camion – 287 all’inizio e 260 dopo, con gli altri che si sono persi nel nulla – siano entrati a Lugansk per evacuare equipaggiamenti delle fabbriche belliche (componenti per i radar Kolchuga e caricatori per fucili) appaiono molto simili a una dietrologia. I misteri dei camion bianchi – entrati in Ucraina semivuoti e tornati, secondo gli osservatori, carichi, forse di armi, forse di militari russi da evacuare – sono il tentativo di trovare una razionalità in una guerra di propaganda. Secondo gossip moscoviti, il “convoglio di Troia” è stato l’iniziativa di un ministro per battere in zelo un suo concorrente, nella gara a chi avrebbe offerto allo zar una retorica comoda. Per un leader che non può parlare di guerra e non può accettare la pace si è trattato di una trovata geniale: gli occidentali sono notoriamente sensibili al dossier umanitario, e insistere sulla necessità di aiutare la popolazione civile vittima della guerra, accusando americani e ucraini di volerla far morire di fame, è più efficace che parlare di “fratellanza slava”. Far entrare i camion senza il consenso degli ucraini e della Croce Rossa, in un blitz quasi militare, aumenta l’autostima trasmessa la sera sui teleschermi dei russi. Se poi con il pretesto umanitario si riesce anche a proporre una tregua (come il Cremlino aveva già provato a fare alle Nazioni Unite) che permette ai separatisti di consolidare le loro posizioni e contrattaccare, si colgono due piccioni con una fava.