Foto LaPresse

Il totem ci ha già sbancato

Marco Valerio Lo Prete

“Inutile discutere dell’articolo 18”, dice Renzi. Certo, per Ichino il premier cambierà “tutto lo Statuto”, ma il benaltrismo ventennale sui licenziamenti ci è già costato: aziende ingessate, apartheid occupazionale, welfare monco.

Il tempo è dalla loro. Dalla parte di quanti sostengono che “la questione dell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è fondamentale”, cioè degli alleati di gomma e finora imbattibili di una minoranza militante per cui addirittura “l’Articolo 18 è una questione di civiltà”. Se passerà un altro ventennio come quello che abbiamo alle spalle, se staremo ancora a raccontarci che occorre “benaltro” che consentire – come in tutto il mondo – i licenziamenti individuali per ragioni economiche, senza obbligo di reintegro per il lavoratore o senza attendere la sentenza di un giudice, avranno definitivamente ragione loro. E’ sufficiente chiedere a un trentenne italiano di questi tempi: quanti coetanei conosci con un contratto a tempo indeterminato cui si applichi l’Articolo 18? Pochini, quasi nessuno. Tra vent’anni, se nulla cambia, la risposta sarà: nessuno. L’Articolo 18 diventerà davvero irrilevante, semplicemente perché non si applicherà più a nessuno. Lo Statuto dei lavoratori del 1970 sarà salvo ma inutilizzabile, con esso sarà salva l’ideologia del “posto fisso”. Per i sindacati sarà dunque al sicuro “la civiltà”, ma a quale prezzo?

 

Il conto piuttosto salato di questo ventennale balletto attorno a un totem, per l’Italia, si può cominciare a stimare già adesso. Riconoscendo che a volte i numeri non possono o non sono sufficienti a dar conto degli effetti di questo unicum. Già nel Dopoguerra, d’altronde, Ernesto Rossi poneva a Piero Calamandrei un problema piuttosto semplice: assumeresti ancora la tua donna di servizio se sapessi che non potrai mai licenziarla? La presunzione di potersi avvantaggiare con una mano dei meccanismi di mercato, mentre con l’altra si tengono fermi quegli stessi meccanismi (invece che riflettere legittimamente su come attutirne gli effetti sociali negativi), presunzione cristallizzata nell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori dopo l’autunno caldo, si è rivelata fatale nel lungo termine.

 

Dimostrarlo statisticamente è laborioso, ma non sono pochi gli imprenditori – lo fece stentoreamente Guidalberto Guidi (Ducati Energia) nel 2000, quando era numero 2 di Confindustria – che hanno imputato per esempio proprio all’Articolo 18 di aver incentivato per esempio il nanismo delle aziende. Meglio volare bassi, rimanere sotto i 15 dipendenti, piuttosto che crescere e dover applicare l’Articolo 18, è stato un ragionamento diffuso, a volte perfino istintivo. Il capitale senza passaporto italiano non sembra pensarla così diversamente. Perché possiamo pure continuare a ripeterci che occorre “benaltro” che l’Articolo 18 per spiegare perché negli ultimi vent’anni sono arrivati nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia.

 

Poi però è sufficiente parlare con un consulente del lavoro che abbia avuto a che fare con un investitore straniero: quantificare il costo di un singolo licenziamento o poco più (perché quelli collettivi sono sempre possibili se si dichiara lo stato di crisi) è una mission impossible. Perché se alla protezione pecuniaria (indennizzo per il lavoratore) si è preferita in Italia quella normativa, complessa da interpretare pure nella versione riformata nel 2012 dal ministro Fornero, tutto diventa imprevedibile. Perciò incerto e poco attraente. L’Articolo 18 rappresenta anche questo: l’idea che un giudice del lavoro, anche fuori dai casi di licenziamento discriminatorio che resterebbero comunque perseguibili, la sappia sempre più lunga dell’imprenditore. Lo stato italiano ritiene che per definizione l’imprenditore non aspetti altro che licenziare il dipendente, perciò sposta sul terreno giurisdizionale (peraltro più accidentato che in tutti i paesi sviluppati, come dimostrano condanne europee e classifiche globali) quel che sarebbe proprio della contrattazione tra imprenditore e sindacato. Ribadire per 44 anni consecutivi questa presunzione di inadeguatezza del mercato e dell’imprenditore, in ogni singolo contenzioso, non avrà generato un’anticchia di scoramento negli spiriti animali (italiani e non)?

 

Poi, certo, alla sola assenza di flessibilità in uscita non si potrà imputare il tasso di occupazione italiano, patologicamente basso rispetto alla media europea: nel nostro paese ci sono 59,8 occupati ogni 100 persone in età lavorativa, contro i 67,7 della media dell’Eurozona. Però è un dato di fatto che non appena si consentì alle imprese di accrescere la flessibilità in entrata, dal 1997 al 2007, grazie alle leggi Treu e Biagi, prima della crisi globale, “quando il pil cresceva a un tasso medio annuo di poco superiore a un punto, sono stati creati più di tre milioni di nuovi posti di lavoro e si è dimezzata la quota della disoccupazione” (Giuliano Cazzola, “Figli miei precari immaginari”, Guerini Associati). Considerati questi numeri sull’occupazione, sbaglierebbe dunque chi pensasse che il ventennale balletto – nel corso del quale la Cgil di Sergio Cofferati tuonò contro la violazione di “un diritto umano” per aggredire i Radicali di Marco Pannella che l’Articolo 18 proposero nel 1999 di abolirlo per via referendaria – abbia sfiancato soltanto i ceti produttivi del paese.

 

Anche i lavoratori pagano dazio, ovvio. Soprattutto perché è uno strano “diritto umano”, un curioso “principio di civiltà”, quello che si applica da tempo a meno della metà degli esseri umani italiani che lavorano. Il giuslavorista Pietro Ichino, parlamentare di Scelta civica (ma prima indipendente nel Pci e poi del Pd), tracciando un bilancio degli effetti dell’Articolo 18, dice al Foglio che “se è vero che una norma scritta in Gazzetta ufficiale non crea posti di lavoro, certamente può inibirne la creazione”. Per questo da anni, prim’ancora che si arrivasse agli attuali livelli record di disoccupazione giovanile, Ichino descrive una situazione di crescente “apartheid” nel mercato del lavoro italiano: garantiti a tutto tondo da una parte, e tutti gli altri in costante “fuga dal diritto del lavoro”.

 

Perché le esigenze di mercato hanno spinto sia gli imprenditori sia i lavoratori a un ormai decennale e sotterraneo processo di aggiramento dell’ostacolo. E’ la distruzione creatrice all’italiana: “La rigidità delle protezioni esistenti alimenta l’assunzione di figure formalmente autonome, ma che poi svolgono di fatto una prestazione di lavoro dipendente senza tutela dello Statuto, inclusi co.co.co, collaborazioni a progetto e finte partite Iva”. La crisi ha accelerato il fenomeno: “Nel 2009 le assunzioni a tempo indeterminato in Italia erano il 21,4 per cento del totale, nel 2013 siamo scesi al 16,5”. Tenuto conto delle assunzioni nelle piccole inprese, l’Articolo 18 vale oggi per poco più di 10 assunzioni su 100. E a chi dice che in fondo però lo stock dei soli contratti propriamente detti “a tempo determinato”, oggi vicino al 15 per cento e in salita dal 6-7 per cento degli anni 90, è in linea con la media europea, si potrebbe rispondere con i numeri di Emilio Reyneri, sociologo dell’Università di Milano Bicocca, tutt’altro che allarmista sulla situazione italiana, che però nel suo manuale edito dal Mulino scrive: “Se al lavoro a tempo determinato aggiungiamo anche quello parasubordinato, il livello dell’occupazione instabile in Italia supera nettamente la media europea”.

 

Aggiunge Ichino: “A fronte di 9,5 milioni di lavoratori garantiti, dall’articolo 18 o dal fatto di essere dipendenti pubblici intoccabili, si contrappongono i 13 milioni di individui dell’Italia che rischia”. La flessibilità è nelle cose della nuova economia globalizzata e crescentemente terziarizzata. Ma quella italiana è una flessibilità di risulta e perlopiù disfunzionale, “cattiva” la chiama qualcuno, quella dei finti collaboratori e delle finte Partite Iva, peraltro legata a retribuzioni inferiori alla media. “Già negli anni 80, un documento del Cnel prevedeva questi esiti. Le parti sociali dunque sapevano – dice al Foglio Benedetto Della Vedova, oggi sottosegretario del ministero degli Esteri, che ricorda di aver cominciato a fare politica nei Radicali sull’Articolo 18 – Lo scontro ideologico non fu voluto da chi chiedeva il superamento di quella situazione, ma da chi in nome dell’ideologia del ‘posto fisso’ scelse di tirare dritto come se nulla fosse”. Eppure perfino l’autore dello Statuto, Gino Giugni, alla fine degli anni 90, giudicò necessario “rimettere mano in particolare all’articolo 18”. Poi però, quando pensò di farlo gradualmente il secondo governo Berlusconi, fu un riempirsi di piazze oceaniche che si opponevano, spalleggiate sempre dai benaltristi. Dal 1999 al 2002, sotto i colpi dei terroristi delle Nuove Br, caddero i giuslavoristi riformatori Massimo D’Antona e Marco Biagi.

 

Non è finito il conto da pagare. Sindacati, Confindustria (tranne rare eccezioni) e terzisti vari dovrebbero ragionare degli effetti di tutto queso ambaradan sul nostro welfare. Biagi, nel suo Libro Bianco del 2001, aveva sapientemente messo in guardia: rapporti di lavoro rigidi e tutela a ogni costo dei rapporti in essere avrebbero “reso meno pressante l’esigenza di fornire un sostegno a fronte del rischio disoccupazione”. Proprio l’articolo 18, in tandem con cassa integrazione e pensioni generose, blindava la cittadella dei garantiti. Che bisogno c’era dunque di riflettere su modelli di welfare più inclusivi e universalistici, interrompendo la deriva dell’assistenzialismo incondizionato per i soliti noti? Così ora sulle spalle degli outsider si scarica tutta la flessibilità del lavoro e tutta la mancanza di protezioni. “Renzi adesso non intende snobbare il problema dell’articolo 18 e del controllo giudiziale sulla libertà di licenziare – conclude Ichino – Piuttosto fa un passo avanti nella giusta direzione: nella legge delega vuole riscrivere tutto lo Statuto dei lavoratori”. Se non riuscirà nemmeno lui, tra vent’anni l’Articolo 18 sarà rimasto in piedi, ma in mezzo alle macerie.

Di più su questi argomenti: