Nigella, Jamie. Il segreto del successo degli chef made in England è il teatro

Erica Scroppo

L’Inghilterra non è rinomata per la cucina, eppure molte sorprese attendono chi indaghi, anche superficialmente, in questo campo. Le stelle Michelin abbondano nei ristoranti inglesi: 4 a tre stelle, 20 a due stelle il che non è poco se si considera che in Italia ce ne sono rispettivamente 8 e 40.

Cambridge. L’Inghilterra, si sa, non è rinomata per la cucina, eppure molte sorprese attendono chi indaghi, anche superficialmente, in questo campo. Per cominciare le stelle Michelin abbondano nei ristoranti inglesi: 4 a tre stelle, 20 a due stelle (di cui uno in Scozia) il che non è poco se si considera che il paese dei ghiottoni – l’Italia – ne registra rispettivamente 8 e 40. A una stella, poi, ci si avvicina a 150, di cui oltre 50 nella sola Londra, inclusi molti gastropub. Quel che inoltre è sorprendente è la quantità di libri di cucina reperibili in ogni casa. Non stupisce quindi che abbondino i programmi culinari televisivi con tanto di chef star, ora assurti al rango di superstar. Bastino due per tutti, diversissimi tra di loro a parte l’amore per il cibo e la passione nel divulgare i segreti della sua più svariata preparazione e cottura.

 

Nigella Lawson, ora ancor più famosa dopo l’acrimonioso divorzio da Charles Saatchi, figlia del ministro delle Finanze di Margaret Thatcher e dell’ereditiera del tè Lyons, laureata in Lettere a Oxford, critica e, giovanissima, vicedirettrice della sezione letteraria del Sunday Times, fa del suo hobby un business quando il marito, il giornalista John Diamond si ammala di cancro. Trasformata la cucina – con tanto di gatto e bambini – in studio televisivo, ispirata da un quaderno di ricette della nonna ebrea mitteleuropea, comincia a impartire lezioni di cucina e ammiccanti sorrisi a un pubblico sempre più vasto.

 

Jamie Oliver, cresciuto nel pub dei genitori vicino a Cambridge, non interessato alle materie accademiche, dopo l’obbligo si diploma in Economia domestica in un college professionale. Il suo apprendistato avviene sotto due cuochi italo-londinesi, Antonio Carluccio e Gennaro Contaldo, che gli lasceranno un amore speciale per la nostra cucina. Per caso viene individuato come telegenico e accattivante e nel 1997 a soli 22 anni esordisce alla Bbc. Da allora è un crescendo di successi e trionfi nei media e nella sua catena ormai globale di ristoranti  grandi e piccoli, economici e costosi.

 

Eterno ragazzone, riconoscibile per i capelli arruffati e l’aspetto transandato perfino nel più elegante dei completi, è un instancabile promotore di cucina sana, cibi biologici e il più possibile di provenienza locale, in particolare nelle scuole. Avendo un fisico che ricorda birra uova e salsicce o fish and chips più che quinoa alghe e goji berry alla Gwyneth Paltrow, ispira fiducia e si fa seguire non solo dai ceti medi già convertiti ma dalla working class assai più restia a certi discorsi sul cibo. La Lawson invece, bella, sofisticata ed elegante propugna le leccornie più zeppe di zuccheri, grassi saturi e colesterolo. Entrambi sono seguitissimi non solo in patria e nei paesi anglofoni, ma anche in Scandinavia, in Germania, e addirittura in Francia e in Italia! Proprio così. Fior di cuoche – e cuochi – hanno l’intera collezione dei loro libri, ne seguono le ricette e come regalino dall’Inghilterra chiedono ingredienti per le loro ricette come quella dei biscotti allo zenzero. Perché mai?

 

Le ricette nei libri, come online, sono semplici, concise, precise. Ce ne sono moltissime facili, che richiedono poco tempo e con istruzioni che anche un analfabeta culinario può seguire. Illustrazioni e video sono un ottimo incentivo. Ma la cosa più invogliante è la limitata quantità di ingredienti, tutti di facile reperibilità. Provare per credere! (io l’ho fatto: agnello al forno seguendo Jamie e torta con farina di mandorle di Nigella, con risultati strepitosi).

 

L’altro fattore altrettanto importante è che gli chef superstar sono dei grandi attori e i loro exploit sono spettacoli di alto teatro. Come del resto molto altro, nel paese di Shakespeare, dalla politica al giornalismo, alla giustizia, all’insegnamento, alla predicazione. Ecco quindi spiegato un altro mistero, quello dei critici gastronomici (in inglese prosaicamente food critic) bravissimi, altamente competenti e sempre cattivi se non addirittura feroci. Con stroncature mozzafiato come quelle che si leggono spesso su libri, film, televisione. Anche perché, per esempio, i critici del Times, Giles Coren e A. A. Gill sono ottimi giornalisti, scrittori e critici, appunto, letterari. Per citare un recente verdetto di due pagine su un pub considerato “il meglio frequentato d’Inghilterra”, Coren definisce la bistecca “avvilente e desolante, tiepida, senza sorprese e senza brio, come se si masticasse la propria lingua”.

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