Scavata nella terra, abbastanza profonda per nascondere un uomo e stretta abbastanza da costituire un bersaglio difficile per l’artiglieria: una trincea del fronte occidentale nel 1916

Guerre del sottosuolo

Roberto Raja

Scavare, nascondersi, aspettare, colpire. Dalle trincee ai tunnel di Gaza: il conflitto nel ventre della terra.

“Nel ricovero mi viene incontro un tanfo di persone, muffa e putredine. Quando abbiamo voluto ampliarlo, di recente, le nostre vanghe hanno preso contro uno strato di terra dall’odore nauseabondo. Probabile che fossero cadaveri, o una latrina zeppa” (Ernst Jünger, “La battaglia come esperienza interiore”, Piano B edizioni, 2014).

 

Fin dove poteva, il maggiore John Norton-Griffiths si aggirava nella zona del fronte sulla sua Rolls-Royce malconcia, nel bagagliaio sempre qualche cassa di vino francese. Aveva 43 anni quand’era scoppiata la guerra, nel 1914, e una buona esperienza nel genio civile, maturata nelle miniere del Sudafrica, in Canada e, in patria, tra Londra (aveva lavorato anche agli scavi della metropolitana) e Manchester. Era tornato nell’esercito, in cavalleria, ma ormai la cavalleria, almeno sul fronte europeo, trotterellava verso la propria obsolescenza. Impressionato dalla cruenta staticità che aveva assunto il conflitto già dai primi mesi, dopo la battaglia della Marna, aveva proposto a lord Kitchener, il segretario di stato alla Guerra, un modo per scalzare i tedeschi dalle loro trincee, per superare la resistenza, che appariva insormontabile, di mitragliatrici e filo spinato. Voleva costruire dei tunnel che arrivassero sotto le trincee nemiche per minarle e farle saltare. Furono però i tedeschi, che avevano avuto la stessa idea e per primi la misero in pratica, sia pure con esiti non devastanti, a convincere il ministro inglese, inizialmente scettico su questo progetto. Il maggiore Norton-Griffiths del resto non inventava niente: una tecnica simile si usava già nel XIV secolo per minare i castelli sotto assedio. Scavare, scomparire sotto terra, rendersi invisibili agli occhi del nemico per arrivare al suo cuore o a un suo punto debole. E da lì colpire. Con l’esplosivo o con un più sofisticato atto di guerriglia. Con un raid mirato, con un’azione terroristica, con un arsenale che viaggia indisturbato, com’è accaduto nei nostri giorni a opera di Hamas tra la Striscia di Gaza e Israele, e come Israele vuole che non accada mai più. “I razzi sono una minaccia del XX secolo a cui noi contrapponiamo una soluzione del XXI secolo. Ma i tunnel sono una minaccia del Medioevo contro cui Israele non ha soluzioni”, ha detto l’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren. Un Medioevo ben organizzato e up-to-date: le gallerie al centro dell’ultimo conflitto mediorientale sono numerose, lunghe tanto da penetrare per centinaia di metri nel territorio israeliano, costruite in cemento, profonde fino a 30 metri sotto terra, le bocche d’entrata celate all’interno di case civili. Nate per aggirare attraverso l’Egitto l’embargo israeliano, poi militarizzate da Hamas.

 

Più grezzo, per molti aspetti non meno efficace, il piano del futuro baronetto Norton-Griffiths, che ebbe carta bianca dal comando britannico, reclutò uomini tra i minatori del Galles e della Cornovaglia, le “talpe” per i commilitoni, e altri che avevano lavorato con lui nei sotterranei di Londra, i “clay kicker”, calciatori d’argilla (appoggiata la schiena a una tavola messa in diagonale, puntavano la vanga e scavavano aiutandosi con i piedi, mentre altri allontanavano pure con i piedi i carrelli con i detriti). Inquadrati in corpi speciali del Genio militare, ben pagati (sei scellini al giorno contro i due dei semplici zappatori e il singolo scellino del soldato di fanteria), arrivarono a formare nel 1916 venticinque compagnie. Scavavano gallerie che arrivavano fin sotto le linee tedesche, per minarle, con la continua minaccia di essere scoperti e neutralizzati dal nemico: da entrambe le parti esistevano squadre di contro-minamento, che scavavano a loro volta e si appostavano nei cunicoli per sondare il terreno con rudimentali stetoscopi, attenti alla minima vibrazione, al più flebile rumore. Scavavano tunnel di collegamento fra le trincee per facilitare i movimenti di uomini e materiali anche alla luce del giorno. Scavavano rifugi sotterranei che potevano ospitare anche centinaia di uomini. E lo stesso facevano i tedeschi, con un grado ancora maggiore di determinazione e sofisticazione: furono i tedeschi i primi a impiegare il calcestruzzo e a costruire rifugi profondi e sicuri, talvolta persino dotati di riscaldamento e luce elettrica. La strategia di fondo era diversa: in attesa del logoramento del nemico, ai tedeschi bastava tenere le posizioni raggiunte in Belgio e nel nord-est della Francia dopo la ritirata dalla Marna (“Trincerarsi e tenere” era stato l’ordine dell’Alto comando il 10 settembre); per britannici e francesi, invece, la prospettiva di un lungo interramento avrebbe significato la rinuncia alla riconquista dei territori perduti. Trincerati e attrezzati nel sottosuolo, sì, ma con il piede pronto a muoversi, ad andare avanti, all’offensiva continua.

 

Tutta la Grande guerra è stata risucchiata più volte e non occasionalmente nel sottosuolo. Scava, piccona, scava, e avrai un riparo, o forse solo l’illusione di un riparo dai colpi dell’artiglieria nemica. Scava in questa terra sconosciuta e forse troverai anche la falda che non ti aspettavi, e con la pioggia farà tutt’uno, le tavole di legno messe sul fondo non basteranno più. “Gli uomini che stavano nel fango per giorni e notti, calzando stivali da campo o fasce, persero qualsiasi sensibilità alle estremità. I loro piedi, così freddi e bagnati, cominciarono a gonfiarsi, a diventare come morti, poi all’improvviso a bruciare come se fossero stati sfiorati da un ferro rovente. Quando arrivava il cambio, decine e decine di uomini non erano più in grado di camminare ed erano costretti a procedere carponi, o dovevano essere trasportati a spalla dai compagni. Ridotti in queste condizioni ne ho visti centinaia e, a mano a mano che procedeva l’inverno, migliaia”, scriveva qualche anno dopo la fine del conflitto il corrispondente di guerra britannico Philip Gibbs.

 

Scavata nella terra, abbastanza profonda per nascondere un uomo e stretta abbastanza da costituire un bersaglio difficile per l’artiglieria, sinuosa – un tratto rettilineo non misurava in genere più di una decina di metri – in modo da impedire ai soldati nemici che fossero penetrati di colpire d’infilata, la trincea è l’anello di congiunzione tra il suolo e il sottosuolo: riparo, camminamento, latrina, fogna, fossa comune. I suoi odori sono la puzza acre della polvere da sparo, il lezzo della decomposizione, il tanfo acido di escrementi umani. Le merde “sparse, di tutte le dimensioni, forme, colori, di ogni qualità e consistenza, nei dintorni immediati degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, bronzine, liquide, solide ecc.”, come le descrive nel suo diario il sottotenente degli Alpini Carlo Emilio Gadda (sarà il “Giornale di guerra e di prigionia”, pubblicato solo nel 1955). I feriti sono coperti alla meglio. I morti, a volte: “Non ero andato molto avanti quando sentii cedere qualcosa di schianto sotto di me. Era uno scheletro le cui ossa erano state ripulite dall’esercito di topi che si aggiravano nei campi di battaglia”, annota il fante inglese Alfred Pollard.

 

Anche la “guerra bianca”, quella combattuta sul fronte italiano, ha avuto le sue battaglie del sottosuolo, e in condizioni climatiche e geologiche estreme, a duemila metri e oltre d’altezza. E’ lì che devi piazzare le cariche sul costone della montagna, scavarti una caverna sotto la roccia o un camminamento al riparo della mitragliatrice austriaca: ci passeranno altri soldati, nella caverna nasconderanno il cannone portato fin lì con i muli. Scava, trivella, usa l’esplosivo: come sul fronte occidentale, gli alpini preparano un tunnel per arrivare sotto la postazione nemica inespugnabile e farla saltare. Ma qui il suolo è la pietra, la roccia della montagna. Verso la fine del 1915 due giovani ufficiali italiani idearono il piano per minare il Castelletto, fortezza naturale della Tofana di Rozes, non lontano da Cortina d’Ampezzo, che dominava un passo strategico sulla via per Brunico e per il Brennero ed era in mano a un plotone di austriaci asserragliati nella sua rete di gallerie e caverne. Occorreva scavare una galleria di 500 metri, partendo dai piedi della Tofana. Solo nel marzo del 1916 arrivarono due trivelle per la roccia che consentirono di procedere più spediti. Centoventi gli zappatori impiegati, divisi in quattro turni di sei ore ciascuno. Molti avevano lavorato come minatori in Germania e in Austria prima della guerra. Avanzavano di cinque o sei metri al giorno in un tunnel largo all’incirca due metri e alto altrettanto. Gli austriaci erano al corrente della minaccia italiana, sentivano il rumore delle trivelle, solo quello e bastava, ma non riuscirono a scavare più di tanto per collocare una contromina. Poi tacquero anche le trivelle. All’alba dell’11 luglio l’esplosione di 35 tonnellate di gelignite fece saltare un pezzo di montagna, creando un cratere “profondo come un campanile”. A Cortina, una decina di chilometri più a est, lo presero per un terremoto.

 

Molti italiani morirono per il riflusso del monossido di carbonio che si era formato nel tunnel con l’esplosione, o travolti dai massi che precipitavano dal cratere. Una decina di austriaci e il loro comandante, un diciannovenne tirolese, sopravvissero e tennero il Castelletto fino all’arrivo dei rinforzi. Solo tre mesi più tardi gli italiani riuscirono ad aver ragione del presidio austriaco. Ma era arrivato l’inverno: la via per l’Austria, passando dal Brennero, era un piano impossibile. Il tunnel per arrivare sotto la postazione austriaca del Castelletto, un’inutile impresa. E non fu l’unica: nell’aprile dello stesso 1916 saltarono diecimila tonnellate di roccia dalla cima del Col di Lana per una mina piazzata sotto le postazioni austriache; nel 1917 gli stessi ufficiali che avevano diretto i lavori al Castelletto fecero scavare una galleria lunga più di un chilometro sotto il monte Lagazuoi, sul fronte dolomitico, ma quando venne dato fuoco agli inneschi dell’esplosivo gli austriaci che presidiavano la cima a 2.668 metri se n’erano già andati.
Nemmeno trent’anni più tardi in Europa il sottosuolo diventa rifugio e difesa, soprattutto per i civili, dalle bombe che arrivano dal cielo in un conflitto tutto diverso ma non meno cruento e globale (e anche qui un passato primordiale e il presente si abbracciano nelle gallerie e nelle grotte scavate da secoli nel tufo di Napoli, quaranta metri sotto il livello stradale: cave greche, acquedotti romani, ossari e infine dimore comuni per una folla assuefatta agli allarmi antiaerei). Ma è dall’altra parte del mondo, in un’altra piega del Novecento che l’arte della guerra sotterranea si specializza fino all’ossessione. I primi sono, in Vietnam, i guerriglieri Viet Minh di Ho Chi Minh e del generale Giap, impegnati a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta nella guerra contro la forza d’occupazione francese. Soldati e contadini scavano una fitta rete di cunicoli e gallerie per spostare rapidamente senza essere visti uomini, armi ed eventuali rinforzi: in meno di due mesi sconfiggeranno il nemico nella decisiva battaglia di Dien Bien Phu. Passano alcuni anni: un’altra guerra, questa volta con gli americani, ancora Ho Chi Minh e Giap, e il ricorso ai tunnel sotterranei (una rete che si estende nel sud del paese intorno a Saigon, a ridosso di un’importante base americana, e le cui propaggini arrivano in Cambogia) diventa strategico. Nascondersi, colpire, tornare a nascondersi. Il nemico invisibile avrà ragione alla lunga anche degli odiati yankee.

 

Orgoglio nazionale, alcune gallerie vietnamite oggi sono aperte ai turisti, anche americani. Lo stesso succede nella zona smilitarizzata (in realtà una delle maggiori concentrazioni di militari al mondo) che separa le due Coree: Seul ha aperto alle visite, sul versante sudcoreano, parte dei quattro tunnel, scoperti dagli anni Settanta in poi, che corrono a una settantina di metri sotto terra nella roccia e attraversano la linea di demarcazione tra i due paesi. Opera della Corea del nord, erano stati realizzati per un progetto ancora più ambizioso di quello vietnamita, anche se Pyongyang non l’ha mai ammesso, anzi insiste nella spiegazione delle miniere di carbone: dovevano servire a un’invasione della Corea del sud da parte della Corea del nord. Una minaccia che Seul ritiene ancora reale, sicura che le gallerie sotto il 38esimo parallelo in realtà siano molte di più di quelle emerse finora e neutralizzate. Le guide aggiungono che le dimensioni permetterebbero a ogni tunnel di far transitare in un’ora un’intera divisione. Altri favoleggiano di dimensioni in grado di far passare anche carri armati. Come a Gaza, l’evoluzione tecnologica di una tattica in fondo rudimentale.

 

I “calciatori d’argilla” inglesi della Prima guerra mondiale non avevano gli stessi strumenti ma riuscirono a mettere a segno un colpo la cui eco arrivò, letteralmente, fino a Londra. Era stato lo stesso Norton-Griffiths a suggerire e a concepire il piano di un attacco massiccio con mine di profondità sulle alture di Messines, in Belgio, un crinale indispensabile per arrivare a Ypres, dall’ottobre 1914 in mano ai tedeschi che da là dominavano le trincee e le postazioni avanzate dell’artiglieria britannica. Lo scavo per il primo tunnel era iniziato nel luglio del 1915, al picco dei lavori erano state impegnate nove compagnie del genio inglese e canadese: lavoravano tra i 25 e i 35 metri sotto terra. A metà del 1916 le gallerie erano quasi tutte pronte, quasi tutte le mine piazzate. Venticinque in tutto alla fine, per oltre 500 tonnellate di esplosivo, su un fronte di una decina di chilometri. Una fu intercettata da una contromina tedesca, una abbandonata in un tunnel crollato, quattro non impiegate per ragioni tattiche. Alle 2.50 del 7 giugno 1917 tacquero improvvisamente i cannoni britannici che martellavano le linee tedesche dal 21 maggio. Venti minuti di silenzio poi, a intervalli di pochi secondi l’una dall’altra, le esplosioni. Un rombo sordo fu avvertito anche a Londra e nell’Inghilterra meridionale, i sismografi svizzeri registrarono qualcosa di simile a una lieve scossa di terremoto. Diecimila soldati tedeschi morirono all’istante o restarono sepolti, altre migliaia tramortiti dall’esplosione. In poche ore nove divisioni di fanteria inglese conquistarono il crinale ormai devastato.

 

Messines fu l’ultimo terribile capitolo della guerra sotterranea nel corso del conflitto: in quegli stessi mesi gli eserciti di entrambe le parti sperimentavano una strategia difensiva diversa, più flessibile nelle posizioni, che avrebbe presto preso piede e reso vana, a causa della lunga preparazione necessaria, la tattica dei tunnel minati sotto le linee nemiche. Il maggiore Norton-Griffiths si era già allontanato dal fronte occidentale, e non vi avrebbe fatto mai più ritorno. Nel 1916 era stato inviato in Romania per sabotare i pozzi di petrolio prima che li raggiungessero nella loro avanzata le forze degli imperi centrali. Finita la guerra, nel 1922 fu fatto baronetto, nel ’28 partecipò senza molta fortuna ai lavori di innalzamento della diga di Assuan, in Egitto. Il 27 settembre del 1930 uscì in barca, in costume da bagno, come era solito fare ogni mattina, dalla spiaggia di un hotel vicino ad Alessandria. Trovarono prima la barca, vuota, poi il suo corpo che galleggiava con un proiettile nella tempia. La morte fu archiviata come suicidio.

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