Mark Zuckerberg (foito Ap)

Le nuove rockstar non scrivono canzoni, inventano algoritmi per le app

Michele Boroni

Ultimamente si parla molto di disruptive innovation, ovvero quei mutamenti tecnologici che, grazie a nuove funzionalità, ridefiniscono prodotti, servizi e modelli di business, danneggiando in modo considerevole aziende e mercati ben consolidati.

Milano. Ultimamente si parla molto di disruptive innovation, ovvero quei mutamenti tecnologici che, grazie a nuove funzionalità, ridefiniscono prodotti, servizi e modelli di business, danneggiando in modo considerevole aziende e mercati ben consolidati. Internet e il digitale hanno generato disruptive innovation in un sacco di comparti dall’editoria alla vendita di viaggi, dalla fotografia all’home video. E poi, attraverso gli mp3, la tecnologia digitale ha praticamente dimezzato il volume d’affari del mercato discografico globale, mettendo sul lastrico le major discografiche. Ma non ha fatto solo questo.

 

Era il 1994 quando gli Oasis, giovane band di Manchester, esordivano con il disco “Definitely Maybe”: la prima traccia del disco si intitolava “Rock’n’roll star” il cui testo era incentrato nel desiderio di Noel Gallagher, uno dei due leader del gruppo, di diventare una stella del firmamento rock. Desiderio allora pienamente esaudito, con tutto quello che ne consegue: soldi, successo e la fiera delle vanità rock’n’roll. Sono passati vent’anni e le cose sono completamente cambiate. La tecnologia non solo ha falcidiato il business musicale, ma ha sottratto anche tutto il suo fascino. Lo spiega il giornalista Bobby Owsinski in un articolo su Forbes intitolato “Quattro motivi per cui le carriere musicali sono state sconfitte dalla tecnologia”.

 

Il tempo in cui lavorare nella musica era uno degli obiettivi per molti giovani è ormai finito e oggi l’industria tecnologica esprime tutto ciò che è sempre stato affascinante in quella musicale. Per decenni i musicisti erano i personaggi più cool dell’universo, oggetto di conversazione a tutti i livelli e massimi influencers culturali e degli stili di vita: da qualche tempo le nuove rockstar sono gli imprenditori tech, ex nerd cresciuti nei fantomatici garage e che con le loro app e software plasmano il tempo libero di milioni di persone.

 

Dall’altra parte, i discografici sono tristi funzionari che cercano di far quadrare i conti, mentre i nuovi idoli musicali hanno un basso profilo e zero carisma.

 

Fino a vent’anni fa non era così difficile l’opportunità di diventare ricchi e famosi con la musica, oggi il mantra è “guadagnarsi da vivere è il nuovo successo”, e anche la fama da talent show dura fino all’ultima puntata del programma tv. Nel mondo tech, invece, la notizia di ragazzini alla guida di una start-up innovativa che poi viene comprata da Google finisce spesso sulle colonne del Financial Times. Ti fai la villa se inventi una app, non se scrivi canzoni.

 

C’è stato un momento, negli anni Settanta, in cui gli artisti avevano la libertà di creare ciò che volevano: nella discussione che ha scatenato questo articolo sui social network, Luca De Gennaro, music talent di Mtv Italia, ricordava il caso di “Tubular Bells” di Mike Oldfield – suite di 45 minuti, senza canzoni e voci, composta da un ventiduenne esordiente – che fu scelta dal giovane imprenditore Richard Branson per lanciare la sua nuova etichetta discografica Virgin e divenne un hit planetario. Oggi se non fai una canzone che può stare in un format radiofonico e che “ricorda qualcos’altro” non hai speranze di essere notato. Nel mondo tech, invece, superare il limite e stupire è l’elemento per il successo. Stesso dicasi per la creatività: non è certo un caso che nelle serie tv (le uniche narrazioni che oggi raccontano la contemporaneità) non ci sono titoli che raccontano le rockstar e invece un sacco che raccontano di geek e nerd (“Silicon Valley”, “The IT crowds”, “Big Bang Theory”).

 

Insomma, coolness, libertà di pensiero, facili guadagni, ma anche uno stile di vita easy, non sono più valori del rock’n’roll ma di bit, codici e algoritmi.

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