L'abito non fa lo startupper di successo, le felpe e le sneakers sì

Manuel Peruzzo

L'effetto ciabatte di Zuckerberg sulla società americana. Come la Silicon Valley ha cambiato i termini di valutazione della professionalità. Ricerche di Harvard, editoriali, gattini di FeedBuzz e quell'assunto: "Mai investire in un Ceo che indossa un abito".

Quando due anni fa Mark Zuckerberg, già famoso per ricevere gli investitori in pigiama e ciabatte, si presentò a Wall Street in felpa con cappuccio, non per tutti fu normale. Lasciare che un ragazzo di neanche trent’anni decidesse che le fin lì consolidate regole formali fossero da violare era inammissibile per Michael Pachter, analista finanziario, che su Bloomberg definì Zuckerberg irrispettoso e immaturo. Oltre ai consigli di stile si spinse a dire che gli sembrava la persona meno adatta nel ruolo di Ceo. Aveva torto.

 

Quello che potremmo definire l’effetto-ciabatte di Zuckerberg, cioè il convincere tutti che il proprio ruolo sociale e imprenditoriale è così solido da non aver bisogno di rispettare formalità o galateo istituzionale, concessione permessa a chi cambia il modo in cui comunichiamo, è stato di recente ribattezzato dai ricercatori della Harvard Business School "Red Sneakers Effect". 

 

Esaminando le reazioni a comportamenti non convenzionali, come l'entrare in un negozio di lusso vestiti in modo sportivo anziché elegante, o l'indossare Converse rosse in un ambiente professionale, i ricercatori sono arrivati a conclusioni che paiono confermare quello che molti romanzieri avevano già scritto, ovvero che tendiamo a percepire più favorevolmente chi esibisce segni di ribellione, persone così "indipendenti e di successo da potersi permettere di vestirsi in modo non convenzionale". Ma attenzione, non è un atto ingenuo. Il contesto qui come altrove è tutto: quando non è percepita l’intenzionalità ogni inferenza lusinghiera scompare e lascia il posto alle critiche verso la sciatteria di chi non rispetta le regole solo perché non le conosce.

 

Nel 2004 Peter Thiel, già co-creatore di Paypal e personaggio briatoriano (che considera le università perdite di tempo, ma anziché suggerire ai giovani di aprire resort in Africa ne foraggia le startup), era uno di quelli che aveva fiutato il talento di Zuckerberg, e aveva investito in ciò che all'epoca era, ai suoi occhi, un prodotto promettente. Nella guida in uscita a settembre, Zero to One, indirizzata agli investitori, Thiel scrive che probabilmente se il suo team avesse avuto tempo per valutare ogni dettaglio, avrebbe evitato i cattivi investimenti, ma in mancanza di ciò il non investire mai in un Ceo che indossa un abito ha facilitato le cose.

 

Nella Silicon Valley l’informalità è la nuova normalità da tempo, come i dolcevita neri di Steve Jobs o le tech-uniform (occhiali, jeans e sneaker) che hanno raggiunto la copertina di BusinessWeek di agosto. Tuttavia, come scrive l’Economist: "non è solo una questione di comfort o convenienza, ma un cambiamento in come concepiamo la competenza e il professionismo". Là dove qualcuno vede immaturità e insolenza qualcun altro riconosce abilità e professione. È una questione di cambiamento culturale, di come pensiamo e reagiamo alla nuova imprenditoria tecnologica. Non è un caso che, tra tutti, l’abito da uomo mantenga storicamente inalterato il suo valore simbolico, come sostiene Tim Edwards, tranne nella Valley, dove alle camicie si preferiscono le T-shirt, all’auto la bicicletta, agli uffici grigi i campus colorati. La nuova élite non veste come la vecchia. La felpa con cappuccio è il nuovo abito, e ne sottolinea la posizione in una gerarchia di potere nella società americana.

 

Lo shift sartoriale corrisponde a un atteggiamento. La creazione è il passaggio da zero a uno, come scrive Thiel è un atto singolare e non riproducibile, è più facile copiare un modello che inventarne uno. Occorre coraggio per affrancarsi dalla sicurezza del passato, delle tutele, delle sovvenzioni e distruggere innovando. In inglese tutto ciò è condensato in disruption, termine che non ha corrispettivo in italiano, metà distruzione, metà rottamazione.

 

Chissà com'era vestito Jonah Peretti quando ha ricevuto cinquanta milioni di dollari dalla venture capital Andreessen Horowitz. Peretti, l'ideatore di BuzzFeed, macchina che ingegnerizza la viralità e ne fa marketing per aziende attraverso il native advertising, ha capito che il modo in cui leggiamo è liquido: nelle timeline passiamo dalla guerra di Gaza ai gattini e non apriamo più un giornale di carta. Quindi, ha costruito una macchina in grado di produrre contenuti editoriali, pubblicità, longread e reportage, sovvertendo coraggiosamente le regole tradizionali di giornalismo. All'inizio BuzzFeed era considerato un prodotto triviale, immaturo e poco professionale. Avevano torto.