Ieri a Taranto sono sbarcati altri 1.311 migranti. Si tratta del decimo sbarco nel capoluogo ionico dall’aprile scorso

Professione salvagente

Cristina Giudici

Italiani, umanitari, a volte eroi. Senza mandati dell’Onu o bandiere No Global. Da Lampedusa a Milano, breve inchiesta attraverso il paese dei Buoni.

Marinai e poliziotti, medici e volontari. Piloti, vigili del fuoco, mediatori culturali, amministratori pubblici, uomini di fede. Eroi per caso, per dovere, per vocazione. Senza sentire il desiderio di superare le colonne d’Ercole né di infilarsi in zone surriscaldate del pianeta per celebrare la coerenza del gesto con i propri princìpi, né per ideologia da sbandierare a ogni incrocio umanitario. Al contrario, sono pragmatici, solerti ed efficaci. A volte, persino una vena di disincanto.

 

Sono questi gli eroi italiani, l’esercito vero dei buoni, che fanno funzionare la macchina del salvataggio e dell’accoglienza davanti alla grande emergenza dei profughi sommersi e salvati, che non si arresta né si arresterà. Chi se ne sta a terra, a polemizzare su costi e benefici dell’emergenza umanitaria, dei 91 mila profughi sbarcati sulle nostre coste, da Taranto fino alla punta estrema della Sicilia, solo nei primi sei mesi del 2014, non riesce a immaginare cosa accada davvero nel Canale di Sicilia. Chi fa i calcoli sui 300 mila euro al giorno, circa 9 milioni di euro al mese, spesi per cercare di sottrarre alla legge del mare e a quella infame dei pirati quelli che vengono definiti “natanti”, profughi, migranti, che partono dalla Libia al collasso, non riesce a immaginare cosa accada davvero in quel tratto di mare, benedetto per le attività mercantili, maledetto per il traffico di esseri umani. Non sa per esempio che su dieci che partono, ne arriva salvo solo uno. E soprattutto non sa che, dopo la strage avvenuta a poche miglia da Lampedusa il 3 ottobre del 2013, davanti a 366 sacchi neri di cadaveri naufragati, i nostri veri, silenziosi eroi senza bandiere ideologiche, senza conflitti culturali da ricomporre in nuove utopistiche tessiture, sono i marinai della Marina militare e della Guardia costiera, sono i poliziotti, sono medici e infermieri, Carabinieri e vigili del fuoco, volontari della protezione civile e delle molteplici organizzazioni umanitarie che partecipano all’operazione Mare Nostrum. “Una lampadina accesa sul Mediterraneo”, l’ha definita l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, il comandante in capo della squadra navale della Marina militare – mille marinai operativi in mare per l’emergency rescue, cinque navi per soccorrere, pattugliare, sorvegliare – cercando al contempo di sbarrare il traffico di droga e di armi, ma anche solo “un’aspirina” per una malattia patologica, se ha ragione il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che ha parlato di 6-700 mila profughi sulle coste libiche, in attesa di partire per raggiungere l’Europa. Chi rimane a terra, tra sentimenti contrastanti come la pietas e la paura di essere sotto assedio, non sa forse che dall’ottobre scorso, da quando è operativo il dispositivo di Mare Nostrum, non ci sono più i pescatori che si gettavano nella notte tra rischi impossibili a pochi metri dalle coste per salvare qualche disgraziato di fuggitivo, o a recuperare i corpi. Né gommoni che arrivavano di notte, lasciando a terra i fortunati che ce l’avevano fatta e si arrampicavano sugli scogli, transitando bagnati, scalzi e stremati davanti alle vetrate dei villeggianti nelle notti stellate di Lampedusa.

 

Ora i nostri eroi sono quelli che salvano migliaia di migranti e profughi ogni giorno, avvisando 12 ore prima i porti di approdo; sono gli equipaggi delle navi della Marina militare, della Guardia costiera, delle imbarcazioni mercantili. E a terra medici, volontari della protezione civile e delle associazioni umanitarie che accolgono i minori nei centri di accoglienza (e benedicono i morti con toccanti liturgie), nelle palestre, ovunque ci sia uno spazio disponibile, mentre gli investigatori della polizia provano ad arrestare scafisti, presunti terroristi, trafficanti che in mare hanno commesso stragi, buttando a mare uomini donne e bambini per alleggerire il carico sui gommoni o sulle navi di legno. Oppure hanno creato appositamente guasti alle precarie imbarcazioni per far scattare gli allarmi e farsi salvare, ché tanto poi ci sono gli italiani a soccorrere.

 

Un cosa è certa, però. Nessuno di loro riesce a evitare il contagio emotivo, dopo l’impatto drammatico che avviene in mare. Quando Martino Baldari, “un vecchio lupo di mare” come si definisce lui, comandante della fregata Etna, 123 metri, costruita per avere a bordo 200 persone, che è riuscita a portare a termine il salvataggio record di 2.128 migranti portati a Salerno il 18 luglio, racconta in diretta alle 11 di sera uno degli ultimi salvataggi il cuore non può che sobbalzare. Soprattutto se lui telefona da un luogo non lontano dalla Libia per spiegare le manovre di avvicinamento da fare, ma anche l’impatto con la drammaticità di un evento, per quanto ripetuto oramai quotidianamente, mai simile a quello precedente o a quello successivo. Anche se avviene sempre intorno a gommoni, navi di legno, sui cui sono stipati corpi umani per giorni in balia degli scafisti. “Per ora ne abbiamo 627”, racconta al Foglio il comandante Baldari, dal telefono satellitare della fregata militare. “Stiamo in mare per giorni, finché riempiamo tutta la nave”, spiega lui, nel suo curriculum anche il periplo dell’Africa l’anno scorso con il 30esimo gruppo navale per un’operazione umanitaria con la Croce Rossa e la fondazione Rava. Ma poi l’evento più agghiacciante per lui è stato quello di vedere un canotto sgonfio, che veniva tenuto a galla dalla forza delle braccia dei passeggeri attaccate ai tubolari per non essere inghiottiti dal mare.

 

Uomini, donne e bambini salvati da marinai come il comandante della nave Grecale, Stefano Frumento. E’ stato lui a trovare nelle stive quei 45 corpi ormai gonfi, accatastati uno sull’altro, morti di asfissia, arrivati nel porto di Pozzallo (Ragusa) il primo luglio scorso. Avevano tentato di uscire all’aperto per la boccata d’aria che li avrebbe tenuti in vita, e invece erano stati ricacciati dagli altri passeggeri verso il buio e la morte. Oltre all’equipaggio, i medici, gli infermieri, la nave Grecale aveva già 327 migranti a bordo. Avvisato da un rimorchiatore mercantile, il comandante Frumento si è recato con l’equipaggio verso la nave di legno che andava alla deriva con 300 persone, siriani e nordafricani. Con il timore di non arrivare in tempo, prima che il gommone si ribaltasse. Con il compito delicato di rassicurali, di fare capire loro che dovevano stare tranquilli. Tenendo a bada la rabbia per gli scafisti, “scellerati”, sottolinea, perché poi la legge del mare è una sola: salvare gli esseri umani, che ormai chiamano i marinai degli equipaggi “Angeli bianchi”, per via delle tute indossate per evitare contagi e malattie infettive. Anche se è impossibile evitare l’altro tipo di contagio, quello emotivo, come con il ragazzo che chiede di vedere il comandante per confessargli fra le lacrime che lì sotto nella stiva, morto per mancanza di ossigeno, c’era anche suo cugino. O evitare – loro che sono militari addestrati per altri scopi, per pattugliare le coste e individuare traffici di armi e di droga, per recuperare ostaggi rapiti – di andare dallo scafista e guardarlo negli occhi, e chiedergli: “Perché?”. Pur sapendo che è inutile ascoltare la risposta, soprattutto se si tratta di uno scafista diventato tale per pagarsi il biglietto, due-cinquemila euro, dipende. “Il coinvolgimento è totale”, sintetizza il comandante Frumento.

 

E poi i marinai, siano della Marina o della Guardia costiera, devono anche resistere a quel sentimento umano che va oltre la pietà, un sentimento terrificante, irresistibile: “Più ne salvi e più ne vorresti salvare”, spiega al Foglio il tenente di vascello, Antonio dell’Anna, ora addetto alle relazioni pubbliche della sala operativa della Marina militare, dove si coordinano da Roma le operazioni di Mare Nostrum; dove arrivano le segnalazioni, le indicazioni dell’unità di crisi del ministero dell’Interno, per sapere verso quale porto dirigersi, a seconda della disponibilità dei centri di accoglienza, che nel frattempo scoppiano. Ma che siano equipaggi di navi mercantili, motovedette della Guardia costiera, grandi fregate della Marina militare, elicotteri di Carabinieri o della polizia o piloti europei di Frontex, poco importa: sono loro i nostri eroi.

 

Nel traffico intenso che si incrocia nel Mediterraneo, sulle navi non si prendono solo in carico migranti, stremati e terrorizzati – siano vittime o carnefici, tutti esseri umani da salvare dal mare – ma si fanno i ricongiungimenti familiari di famiglie separate durante il recupero, si dona conforto, si raccolgono le testimonianze per sapere chi ha commesso reati; si stabilisce con il supporto delle altre forze dell’ordine chi ha contribuito al traffico di carne umana, chi ha creato falle apposite nelle piccole imbarcazioni per poter essere soccorsi, chi ha compiuto stragi, ha maltrattato o molestato donne. E ancora: chi ha subìto violenze, oltre a quelle già inflitte dal viaggio. E c’è anche il fatalismo di chi, davanti ai cadaveri, dice una sola frase: “Io sono vivo”.

 

Poi tocca al comandante in capo della squadra navale della Marina fare osservazioni più oggettive rispetto al movimento delle popolazioni, che premono ai confini delle nostre coste, con un duplice obiettivo. Umanitario, ovvio, ma anche strategico. Tenendo in considerazione da una parte la difesa dei nostri interessi commerciali – in media 500 miliardi di euro ogni anno – e con il pensiero a tutti i profughi che arriveranno, se non si interviene sui porti dei paesi da cui arrivano. “Fare una stima dei prossimi arrivi è impossibile, i trafficanti non ci avvisano”, spiega a il Foglio l’ammiraglio Foffi, “ma ci vuole un intervento delle Nazioni Unite in Libia”, non si stanca di ribadire.

 

La tragedia umanitaria vista da terra è diversa. In Sicilia sono passati il 90 per cento di migranti-natanti-profughi. E se all’inizio lì si faceva a gara per offrire solidarietà, oggi la macchina dell’accoglienza è stremata. A Pozzallo, dove continuano ad approdare le barche, i residenti sono intimoriti. Forse è per questo che al funerale di quei 45 corpi morti asfissiati, rimasti nel piccolo porto per quasi un mese per via dell’autopsia, i cittadini non ci sono andati: per protestare contro le istituzioni che scaricano quasi esclusivamente sulle loro coste il peso della tragedia umanitaria. Così il comandante della Guardia costiera si limita a fare l’elenco dei numeri degli ultimi arrivati, senza aggiungere considerazioni, mentre il medico responsabile della Asl, dopo l’ennesimo sbarco, risponde con la voce rauca. Il parroco della Madonna del Rosario, don Vincenzo Rosana, che ha accolto un gruppo di minori, sorride all’idea dei suoi ospiti venuti dal mare e che si sono messi sul sagrato della chiesa per fare da cornice a un matrimonio e applaudire gli sposi. E non si permette di giudicare neanche quell’immigrato che ha i genitali ustionati perché durante il viaggio in mare deve essere stato punito per aver avvicinato, chissà se molestato, una donna. E si raccomanda di non dimenticare di annoverare fra gli eroi anche i vigili del fuoco, che hanno tirato fuori quei 45 corpi dalle stive. E il capo della squadra mobile di Ragusa, Antonino Ciavola, che ha arrestato dall’inizio dell’anno 74 scafisti. “Li riconosco subito ormai, mi basta uno sguardo”, ironizza. “Tutto avviene nell’arco di 24 ore, dopo il salvataggio”. Bisogna parlare con tutti, senza perdere un dettaglio, uno sguardo; avvicinare immigrati terrorizzati prima che scendano a terra per dimenticare e scappare. Prima che saltino sul treno che da Catania va a Milano. “A volte è facile perché molti fanno i video coi telefonini, o persino dei selfie, l’ultimo era un senegalese”, racconta il capo della Mobile al Foglio. Pare che quei 45 morti che lui ha visto, “la scena più raccapricciante della mia vita”, fossero stati messi nella stiva perché, per paura della morte erano usciti di senno, avevano cominciato a fare riti magici, creando scompiglio su quell’imbarcazione dove non ci si poteva neanche muovere, “perché quei disgraziati le navi non le fanno partire se non sono zeppe e poi qualcuno lo gettano a mare, dopo aver preso i soldi, dopo la partenza”, conclude Ciavola.

 

Una catena macabra a cui si contrappone una catena umanitaria, immensa, che non si ferma mai, ma talvolta stremata, dubbiosa. Perché è più facile essere eroi in mare, che a terra. Come spiega il dottor Mario Giosuè Balzanelli, direttore del servizio di emergenza 118 dell’Asl di Taranto. Otto recuperi di profughi alle spalle in soli due mesi, il primario, appassionato di filosofia, racconta il sentimento contrastante di una città, Taranto, economicamente depressa, stressata dalla vicenda dell’Ilva, che per settimane ha fatto le gare per offrire la propria solidarietà, con cittadini che si portavano i profughi scesi scalzi dalle navi al supermercato. Eppure, dopo l’ultimo sbarco settimana scorsa, oltre mille persone, alcune con la scabbia, che venivano anche dal centro Africa, si è visto un punto interrogativo dipinto sul suo viso, che ha un significato inequivocabile. “Salgono, gli africani salgono verso l’Europa, la pressione demografica aumenta e noi non sappiamo quando e se si fermerà”, osserva. “Per noi medici, addestrati all’emergenza, diventati eroi per caso, l’impatto coi loro drammi lascia tracce indelebili nel cuore. E questa città furiosa perché è sempre stata lasciata sola, quando li vede scendere dalle navi, rassicurati, ma esausti, smette di lamentarsi”. Ecco perché ogni approccio ideologico all’emergenza umanitaria è sterile. Perciò pare incomprensibile che il sindaco leghista di Padova, Massimo Bitonci, per ragioni di bottega e di consenso politico, si opponga all’arrivo e all’accoglienza di 38 profughi distribuiti sul territorio italiano dal ministero dell’Interno. Alternative, per ora, non ce ne sono. E come diceva sant’Agostino: “Se avrai salvato un’anima, avrai predestinato la tua alla salvezza eterna”. Tradotto in linguaggio gergale per eroi contemporanei: salvando ci si salva.

(primo di due articoli)