(Foto di Ansa) 

A tu per tu

L'allegro principe di Roma

Salvatore Merlo

Conosce tutti e per tutti si spende. E’ l’uomo di mondo che più di ogni altro incarna lo spirito della capitale. Storia e storie di Giovanni Malagò, presidente del Coni.

A volte ci sono immagini talmente rivelatrici che bastano da sole a raccontare un’intera vita. E così a metà dell’intervista accade che mi squilla il telefonino. E’ un amico. Richiamerà, dico. Ma il principe di Roma, che mi sta di fronte, insiste con un irremovibile garbo perché io risponda. Così non faccio in tempo a biascicare un timido: “Pronto?”, che lui, trovando lo scherzo divertentissimo, quasi mi strappa il telefono dalle mani. “Sono il segretario del dottor Merlo, mi dica… Ma no. No. Eh. Sono Giovanni Malagò, sto facendo un’intervista con quel cazzaro di Salvatore”. E a questo punto ride di gusto. E rido anche io perché questo signore alto e brizzolato che sporge dall’altra parte dell’ampia scrivania, l’uomo che tutti dicono incarni l’essenza stessa della mondanità e del potere romano, è snodato e senza protervia, di Roma ha la faccia allegra e l’aria da spensierato ex scavezzacollo. “Da ragazzo vincevo molto al casinò. Monte Carlo, o Venezia, tornando giù da Cortina. A Roma passavo le notti giocando a poker con Carlo Caracciolo, Jas Gawronski, Claudio Rinaldi e Pietro Calabrese”.

 

E mentre pronuncia queste parole lo sguardo gli naviga in un collirio affettuoso. “Poi al mattino, prestissimo, spesso telefonava l’Avvocato Agnelli e s’informava su chi stesse perdendo di più. E rideva. L’Avvocato aveva delle frequentazioni a compartimenti stagni. C’erano gli amici della politica, quelli dell’imprenditoria, gli intellettuali. E poi c’erano quelli che lo divertivano, quelli con i quali era scanzonato al massimo livello”. E qui Malagò sembra rievocare una stagione di scioltezza e intelligenza, “perché c’è naturalmente un’intelligenza mondana”, dice accennando un sorriso che emana sicurezza e vaporosa sostanza. E io immagino un godibilissimo universo composto di sarcasmi da salotto, paradossi per pochi intimi, finezze che dovevano apparire straordinarie forse anche perché evitavano l’offensivo trauma dell’esame esterno. “L’Avvocato si vantava d’essere un gran giocatore di ‘Le carté’. Forse non amava la filosofia del poker, sta di fatto che non giocava mai. Ma quel periodo è passato. Davvero. Finito. Ormai non gioco a carte da anni. Questione di opportunità”. E qui Malagò incassa la testa nel colletto della camicia sbottonata, si fa serio. “Io sono come un bicchiere, con l’acqua al bordo. Se ci aggiungo della roba, l’acqua esce.

 

Dunque se aggiungo qualcosa deve valerne sul serio la pena. Non vado più nemmeno al casinò. Mi dicono che l’atmosfera è cambiata. La qualità delle persone”. Meno eleganza? “Una volta c’era gente che conoscevo. Ora siamo in piena, piena… piena globalizzazione. Per la verità non gioco nemmeno a pallone, come vorrei. Mi manca il tempo. E il tempo, ho scoperto, è il più grande dei lussi. A che serve aver accumulato ricchezze, se poi non te le puoi godere perché non hai tempo e dunque soffri?”.
Sulla sua struttura atletica di cinquantacinquenne ben conservato, sul suo corpo largo da sportivo (“ho giocato professionalmente a calcio a cinque, ho anche giocato i Mondiali, vinto due scudetti e la coppa Italia”), sull’intelaiatura dei tendini e dei muscoli, troneggia un sorriso amichevole, talvolta da fotoromanzo, oppure fissato in alcune espressioni di corruccio che si accompagna a un certo scrupolo nei gesti, in mosse geometriche, cadenzate, alle quali gli abiti stanno appesi con studiata e seduttiva noncuranza. In passato gli sono stati attribuiti flirt con decine di donne, ne ha corteggiate di bellissime, anche Monica Bellucci, pare. E alle donne, donne sportive, ha dedicato un libro, un’elegia della femminilità.

 

“L’universo femminile mi confonde e mi affascina. Da sempre. Se esci con una bella donna, una donna elegante, che ha classe, che è divertente, se è una donna impegnata nel sociale, altruista, che fa sport, che insegna sport… E’ una gioia. Il cammino faticoso verso la scoperta d’un mistero”. Lei si è sposato due volte, gli dico. “Tanto per cominciare dammi del tu”. Okay. Ti sei sposato due volte? “In realtà soltanto una, con Polissena”. Polissena di Bagno, erede dei Malatesta, famiglia dantesca. “Anche se considero gli anni passati con Lucrezia come un matrimonio”. Lucrezia Lante della Rovere. “Abbiamo un rapporto splendido ancora oggi. Tutti noi. La mia prima moglie, Lucrezia, i figli di Polissena, le mie due figlie. Pensa che andiamo in vacanza insieme. Vengono anche i cani, i tre Labrador: Mou, John e Avena”. Hai avuto molti cani? “Ho sempre avuto un cane”. Labrador? “Sempre”. E’ un cane buono il Labrador. Un po’ cazzone. “Forse è per questo che mi piace”. Ma è vero che Marina Ripa di Meana, la mamma di Lucrezia, voleva costringerti a sposare sua figlia? “Una volta fui invitato a colazione a casa di Marina, e c’era Bettino Craxi, cioè il presidente del Consiglio. Lucrezia non sapeva niente. Ma Craxi comincia a farmi uno strano discorso sui doveri. Insomma era una situazione abbastanza surreale”. E come te la cavasti? “Spiegai a Craxi che non potevo sposarmi perché il matrimonio con Polissena non era stato annullato. Oggi sono signorino”. Non hai una fidanzata? “Ho una relazione complicata”.

 

Susanna Agnelli ti chiamava Megalò. E forse, azzardo, il soprannome rispecchia la tua gioventù, restituisce l’immagine di un signorino di buona famiglia, con il colletto della camicia alto, la giacca avvitata sui fianchi che se non corre in Ferrari o sui campetti di pallone passa il suo tempo tra le due “c”: casinò e caffè, e poi con le ragazze. O no? E Malagò, per niente increspato: “Per la verità questo soprannome lo usa Dagospia. Non è di Susanna Agnelli. E conoscendo Roberto (D’Agostino) per la verità m’è andata pure bene. I suoi nomignoli sono, come dire, contundenti. La verità è che io ho sempre lavorato, dopo gli studi, nell’azienda di famiglia”. E Megalò, in fin dei conti, non è un nomignolo fastidioso, ci può stare. “Sì, ma niente a che vedere con gli Agnelli. Lupo Rattazzi, il figlio di Susanna, è il mio migliore amico, il mio socio al cinquanta per cento. E questo rende la cifra di tutta la considerazione che ho per lui”. Lupo è il fratello di Cristiano Rattazzi, grande amico di Montezemolo. Ed è così che nasce l’amicizia tra Malagò e Montezemolo, un’amicizia credo vitellonesca, ribalda, che dev’essere stata anche un gioco. Avete fatto molte cazzate insieme? “Tante, forse troppe”. Era un’altra epoca”. E leggi spesso Dagospia. “Come tutti, anche se si vergognano a dirlo”. Dagospia rappresenta bene la Roma del generone, la Roma “godona”, che è forse un po’ anche la Roma del tuo circolo, l’Aniene. “Ma no. L’Aniene è un posto magnifico”. Però Dagostino lo chiami “Roberto”, siete amici? “Qualche volta lo vedo a Sabaudia, al mare”.

 

E insomma Malagò è amico di tutti, sorride a tutti, parla con tutti, da tutti si fa dare del tu, per tutti ha una parola buona, a tutti offre e tutti abbraccia. “Mi piace molto Matteo Renzi”, dice. “Mi piace anche il fatto che non frequenta i nostri salotti romani. Se ne sta chiuso a Palazzo Chigi, a lavorare, circondato dalle carte. Offre delle suggestioni, ma dovrà fare delle cose. Bisogna dargli tempo. E’ come se corresse la maratona con uno zaino da dieci chili sulle spalle, i chili del debito pubblico, della gestione dissennata dello stato. E mi piace anche la sua banda di ragazzini temperata dalla saggezza di Graziano Delrio. Che è un uomo molto per bene, e anche un ottimo giocatore di calcio”. Ci hai giocato con lui? “Purtroppo non gioco più”. E a questo punto Malagò fa salire il pantalone sulla gamba, abbastanza da mostrare una larga cicatrice che gli affligge il ginocchio. “Il legamento. Purtroppo. Ma con Graziano vorrei giocare”.

 

E mentre lo osservo penso che la sua non è la Roma del generone, peritosa e vile, portentosamente piccolo borghese, ma non è nemmeno quella di Campo dei fiori, quella radical chic, la Roma colonizzata dall’ultimo rutto à la page, o quella imbelle e Pasquina, quella curiale e papalina. Perché forse Malagò “è” Roma. Cioè in qualche modo lui è tutte queste cose, e tutte insieme, ma senza esserne davvero nessuna in particolare. Accompagna infatti la sua romanità a una certa, singolare capacità fattiva. Dello sport ha all’incirca un’idea decoubertiniana: è stato eletto presidente del Coni con un programma molto dettagliato, che ha fatto anche pubblicare e che mi consegna con un certo narciso compiacimento. Così quando gli chiedo se Demetrio Albertini ha possibilità di diventare nuovo presidente della Federcalcio, Malagò si fa diplomatico, ma mi fa anche capire che il campione dalla faccia pulita gli piace assai. E quando invece gli chiedo di alcuni presidenti di squadre di calcio, che di mestiere fanno tante e altre cose, e vogliono costruire stadi su terreni di loro proprietà, lui sfodera un fraseggio di straordinario nitore: “Il calcio ha bisogno di meno avventurieri, di meno gente con conflitti d’interesse, di meno gente che entra nel calcio per fare soprattutto altro. Questo sport, oggi in crisi, ha bisogno di una classe dirigente all’altezza”. Allora gli chiedo di Claudio Lotito, il presidente della Lazio, che ha criticato quella legge sugli stadi che invece, secondo Malagò, “è un ottima legge che contiene una parola totemica: pubblica utilità”. Alcuni descrivono Lotito come un avventuriero, per altri invece è un pittoresco di genio. Secondo te? “Andiamo avanti”. E la sua è un’ironia lieve, un’indole che non ha nulla di parassitario e predatorio, un modo di condursi che lo rende indiretto, soffice, etereo, eppure solido. E d’altra parte Malagò da decenni è soprattutto il circolo canottieri Aniene, l’associazione sportiva dove sono iscritti tutti quelli che contano in città, il club di Walter Veltroni ma anche di Gianni Letta. “La mia presidenza lì è ormai soltanto onorifica. Il Coni mi assorbe a tempo pieno”, mi spiega. Eppure all’Aniene lui fu eletto, e poi rieletto, ed eletto ancora. E per conservarlo alla presidenza è stato persino modificato lo statuto societario. Insomma lui davvero è come Roma, la città che più offre e si offre: la grande bellezza, una bellezza assoluta ma confidenziale, a disposizione di tutti.

 

E la politica mai? “Mai”. Ma sei nato nel 1959, dunque avevi diciotto anni nel 1977. E quelli erano anni di piombo e di politica. “Io stavo lontano da tutto. E poi l’onda della contestazione era passata”. Ma si sparava. “Erano anni brutti. Sfuggii anche a un sequestro”. Non lo sapevo. “Fu un momento drammatico per tutta la mia famiglia. Avevano puntato me, ma rapirono mio zio Tommaso, il cugino e socio di mio padre. Fu trattenuto per novantadue giorni. Una vicenda terribile che precipitò su una famiglia felice, abbastanza allegra. Mia madre è cubana, come forse sai già”. Sì l’ho letto. Parli spagnolo. “Mia madre fuggì da Cuba durante la rivoluzione castrista. Erano molto benestanti. Pensa che seppellirono la fortuna di famiglia nel giardino di casa, presero una tinozza ed espatriarono. Nel frattempo la villa divenne la centrale operativa della nomenclatura russa a Cuba. Incredibile. Mia madre per anni non è voluta ritornare, e noi figli siamo cresciuti con un’idea tra il rimpianto e il fastidio per quell’isola. Da ragazzino giurai che non ci avrei mai messo piede. Poi invece alcuni anni fa, per le nozze d’oro dei miei genitori, siamo tornati tutti. Mia madre aveva nostalgia. E così ho rotto il patto con me stesso….”. E qui Malagò sorride. Dice in un soffio, ironico: “Pensa che ora ho un rapporto personale con Antonio Castro, che è il vicepresidente della Federazione mondiale del baseball e softball”.

 

Da poco meno di un anno Malagò è presidente del Coni. A sorpresa ha sconfitto i suoi avversari, che erano favoriti. “E anche per via di questo incarico adesso molte cose sono cambiate nella mia vita. Sono diventato un funzionario pubblico, come vedi qui c’è il ritratto del presidente Napolitano. Io vado in giro per l’Italia due o tre giorni alla settimana. Ieri ero a Riva del Garda, il giorno prima ero a Firenze per la World League di pallavolo. Talvolta mi manco molto”. Così, quando ho telefonato a Malagò per chiedergli se aveva voglia di farsi intervistare, alcuni giorni fa, lui mi ha risposto in questi termini, con un lampo d’ironia nella voce: “Sì, con vero piacere. Ma quanto dura? Ti do una notizia: la differenza tra me e il mio amico Luca di Montezemolo è che io lavoro”. E infatti, un’ora prima che il mio telefono si mettesse inopportunamente a squillare in questa enorme stanza che gli fa da studio nella mussoliniana palazzina “H” del Coni, avevo osservato Malagò per parecchi minuti, impegnato, occhiali sul naso, a disbrigare la posta con l’ausilio delle sue efficientissime segretarie. Decine e decine di lettere e di e-mail, inviti, domande d’aiuto, petizioni da firmare, richieste d’incontro, “vedi qui c’è uno che vuole una mia presa di posizione sul divieto imposto alle donne di praticare certi sport nei paesi islamici”… E rispondi a tutti? Le segretarie, all’unisono, con movimento meccanico della testa mi fanno cenno di “sì”. “A tutti”, conferma lui. Poi si rivolge alle segretarie: “Questa lettera è del ministro Giannini?”. E quelle: “Sì”. E lui: “Va bene. Dobbiamo rispondere”. E a questo punto solleva lo sguardo verso di me, all’improvviso, con pupille beffarde, come attraversate da un’immagine incongrua, da un’idea divertente. E dunque, ancora una volta, mi rivela la sua graziosa disinvoltura nel cambiare registro, nel dosare in pochi istanti serietà e civetteria. “Beh lo incontriamo il ministro. Certo. Ma la Giannini resta, vero?”. E io: dipende dalla Mogherini, se va in Europa o meno. “Eh beh. Allora forse la Giannini resta”. Poi ritorna serio, a sfogliare la posta. “Qui ringraziare”, “qui pure”, “qui rispondere affermativamente”, “qui negare”, “mmmm”, “questo è Baldissoni della Roma. Scrivere: ‘Caro Mauro ne parliamo a voce’”. Altro foglio: “Okay”. Altro ancora: “Okay anche questo. Uffa. Va bene abbiamo finito, grazie”. A questo punto si toglie gli occhiali. Mi guarda. “Sono tutto per te”. Si fa per dire.
Twitter @SalvatoreMerlo

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio), Ezio Mauro (22 febbraio), Giancarlo Leone (1° marzo), Flavio Briatore (7 marzo), Fedele Confalonieri (15 marzo), Giovanni Minoli (29 marzo) Luca di Montezemolo (3 aprile), Urbano Cairo (10 maggio), Claudio Lotito (2 luglio)

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.