Beppe Caschetto disegnato da Vincino

A tu per tu

L'orso di Bologna

Salvatore Merlo

Beppe Caschetto è il re Mida della tv. Poiché vive la sua professione con singolare consapevolezza, parla del mondo dello spettacolo, della televisione e del cinema, e insomma del cosmo che gli ha regalato un’indiscutibile agiatezza, e lo fa con un oscuro sentimento di distacco e pure anche di amorevole attrazione, “il successo senza il talento non dura”, dice.

Poiché vive la sua professione con singolare consapevolezza (“esiste il successo senza il talento”), parla del mondo dello spettacolo, della televisione e del cinema, e insomma del cosmo che gli ha regalato un’indiscutibile agiatezza, e lo fa con un oscuro sentimento di distacco e pure anche di amorevole attrazione, “il successo senza il talento non dura”, dice. Dunque racconta: “Non vado alle feste, non frequento, prendo il treno per andare a Milano, poi prendo il treno per andare a Roma, vado su e giù, senza fare il nido in nessuna delle due capitali d’Italia”. Milano, come Roma, gli è estranea, febbrile, fredda, “poi la sera torno sempre a casa mia, a Bologna”, dove lui vive con la moglie e i genitori anziani, con la madre che viene da una famiglia di partigiani comunisti e con il padre che invece è un carabiniere a riposo (“quando comunicò ai suoi superiori il fidanzamento con mia madre, l’Arma lo trasferì immediatamente”). Vivono tutti nella stessa grande casa, “ciascuno con i suoi spazi. A mio padre ho potuto regalare un giardino con gli ulivi e anche un cane, come aveva sempre desiderato. Mia figlia sta poco più in là, a dodici metri da noi”. Ma non è soltanto la dispersione garrula, cordiale, fatua e forse un po’ kitsch delle feste televisive a non attirare questo sessantenne mediterraneo, frenato, dai tratti concentrati, con la barba di un avventuriero e la calma di un ingegnere. “Bibi Ballandi, con il quale ho cominciato la mia carriera di agente televisivo, mi diceva di non andarci alle feste. Mi diceva sempre: ‘Beppe, quelli sono posti dove tutti ti chiedono dei favori. E le cose poi sono due: o quel favore non lo puoi fare, e la cosa è insopportabile. Oppure quel favore lo puoi fare, e la cosa è comunque insopportabile”.

 

Seduto a un piccolo tavolo ad angolo del ristorante La Brisa, in centro a Milano, circondato da uomini in cravatta dagli orologi d’oro, fazzoletti sbuffanti nel taschino, e donne dalle sventate policromie, vedo avanzare verso di me un uomo brevilineo ma slanciato, capelli bianchi, occhiali da sole in una giornata per la verità un po’ scura, forse graduati, un cappotto corto su una sottile sciarpa di seta, secondo e terzo bottone aperti sul petto, scarpe nere, lucide e leggermente a punta, blue jeans un po’ stretti sui fianchi, come pure la camicia che gli cade a misura sulle spalle, un’ombra penetrante di profumo e una disperata stempiatura “di cui mi sono fatto ormai una ragione”. La prima cosa che scopro di Beppe Caschetto, dell’agente dei divi, di Roberto Saviano e di Maurizio Crozza, di Fabio Fazio e di Fabio Volo e poi ancora di Alessia Marcuzzi, di Pif, di Neri Marcorè, di Luca Telese, di Luciana Littizzetto e di Giovanni Floris, la prima cosa che noto in lui, appena gli tendo la mano, è che non sorride quasi mai. Lei sorride poco, gli dico. “Sorrido quando ci sono le condizioni. E ora non ci sono le condizioni”. E dicendo queste parole, senza sprezzatura ma con gravità, mentre assaggiamo un parmigiano e un prosciutto così salati da essere quasi incommestibili, il suo sguardo esprime le lunghe, occhiute cautele della vita. “Forse sono rigido. Ma non si può fare questo mestiere senza rigidità. Senza sistematicità. Come fai a chiedere rigore agli altri, ai tuoi clienti, se poi non sei rigoroso tu per primo?”. Immagino ci siano state anche separazioni dolorose nella sua carriera. “Valeria Marini. La portai a fare un servizio fotografico con Helmut Newton. Ci furono problemi”. Valeria Marini criticava il modo di lavorare di Helmut Newton, uno dei più grandi fotografi della storia. “Valeria era bella ed esuberante, ma Newton era Newton”. E chi è stato il suo primo cliente? “Alba Parietti. Lei mi spalancò un mondo, cominciai a frequentare gli intellettuali, divenni amico di Stefano Bonaga, avevo l’opportunità di frequentare l’aristocrazia televisiva. Sono molto debitore alla leale follia di Alba, conservo per lei un profondo affetto. In quegli anni conobbi Guglielmi, parlavo con Fuscagni, con Giovannelli di Canale5. Un po’ tutti pensavano che fossi un avventizio, che sarei sparito. Ma io avevo una famiglia e non potevo mollare. E oggi dico che ho avuto un culo pazzesco: era molto improbabile che si incastrassero tutte le condizioni. Ma è successo. Quello televisivo è un sistema oligopolista molto difficile. Ci sono ostacoli inimmaginabili, specie se uno fa base a Bologna”. Malgrado Bologna, in quegli anni, fosse la città già fecondata dal Dams e dai quaderni di semiotica, da Umberto Eco e dalle avanguardie politiche, dalle assembee e dai fumetti di Andrea Pazienza, da Michele Serra (ancora residente). Provoco Caschetto: lei vive del talento altrui. “Vivo del talento degli artisti, che a loro volta vivono del mio di talento”. Lei fa il mediatore, il sensale. “Non sono un mediatore, né un mezzano, né un percentista. Sono un negoziatore spietato e un leale coltivatore di talenti. I mediatori in Italia sono figure opache. Questo è un paese di mediatori. Il mediatore alimenta divergenze perché poi sia indispensabile mediare, e ovviamente a mediare è sempre lui, che in questo modo acquisisce potere. In Italia il mediatore è Valter Lavitola, è Luigi Bisignani, è Lele Mora. Io faccio un altro mestiere”. Ci sono artisti che vorrebbe rappresentare, clienti da strappare alla concorrenza? “Ci sono artisti che ammiro. Io ammiro Roberto Benigni, mi piace da impazzire Benigni. Ma Benigni sta oltre la televisione, sta sopra tutto, è un premio Oscar. E io mi chiedo: cosa potrei dare a Benigni che Benigni non ha già? Forse nulla. Io accompagno i miei clienti nella loro carriera, li indirizzo, capisco le loro potenzialità e li guido. Daria Bignardi iniziò con il ‘Grande Fratello’, poi pensammo che si poteva fare altro”. Lei ha nemici? “Tantissimi. Me ne accorgo, lo sento. Se potessero abbattermi per loro le cose sarebbero più facili”. Colleghi, rivali? “La differenza tra me e loro è che io voglio bene ai miei artisti. Per loro invece gli artisti sono strumenti. Quando finiscono con uno, quando lo esauriscono, cominciano con un altro. Con me non succede”. Che rapporti ha con Lucio Presta, l’altro grande agente della televisione, il marito di Paola Perego, l’agente di Mara Venier e Paolo Bonolis, ma anche di Benigni? “Buoni. Lui è sempre cordiale con me, io invece sono sempre orso e mi dispiace”.

 

Si descrive come un orso, un uomo rigido. “Guardi, le faccio un esempio che non dovrei farle: io in questo periodo avrei voglia di farmi una canna, una cosa che non ho mai fatto in vita mia. Ma non me la faccio. E non me la faccio sa perché? Per una ragione che non ha niente a che vedere con la virtù o con l’idea del giusto e dello sbagliato, con la morale o con ragionamenti che riguardano la salute. Non me la faccio semplicemente perché ho giurato ai miei famigliari che non avrei mai più fumato nemmeno una sigaretta in vita mia. E la cosa mi pesa. Guardi, mi pesa non tanto per il desiderio edonistico di farsi una sigaretta, ma perché nelle affermazioni categoriche, negli imperativi assoluti, nelle affermazioni estreme di volontà, come ‘non fumerò mai più una sigaretta’, io ci vedo l’ombra della morte”. E dunque Caschetto si racconta come un uomo che trova un malinconico fascino nella solitudine della riservatezza. Così l’agente dei divi mi pianta addosso i suoi tondi dolenti occhi noisette, e dice: “Non coltivo rapporti di amicizia con i miei clienti. Anzi, io forse nemmeno ci credo nell’amicizia. L’amicizia contiene in sé un elemento di caducità. L’amicizia è un contratto a tempo. Si è legati dall’interesse, dall’abitudine, persino dall’avversità o dal comune successo, e si vengono così a costituire gli elementi di una piccola società. Ma finiti gli interessi comuni finisce anche l’amicizia”. Obietto: lei in questo modo esprime un’idea un po’ manichea, rigida, forse arida della vita. Ma non ha mai fatto dei favori in vita sua? Il suo è un lavoro di relazioni, di continui scambi, ammicchi… “Fare dei favori è una delle cose che fa maggior piacere al mondo. Solletica la vanità. Nella richiesta di un favore c’è insito il riconoscimento sociale. Lei, per esempio, chiederebbe mai un favore a qualcuno che ritiene incapace di esaudirlo?”. No, non avrebbe senso. “Appunto”.

 

Eppure dietro il suo scetticismo per l’amicizia s’intravede un desiderio di amicizia, o forse di complicità con l’intervistatore, una voglia cauta di perforare il cuoio della diffidenza reciproca. Dunque si fa geloso, ma anche improvvisamente prodigo della sua vita interiore. Così quando gli dico che Italia Oggi ha calcolato in circa quaranta milioni di euro l’ammontare del suo patrimonio, lui dice che non è vero, “anche se io nella vita il benessere l’ho cercato con pervicacia. Ma ho cercato il benessere solo per evitare il malessere. La mia è una famiglia d’immigrati meridionali, mio padre è siciliano, di Modica. Vivevamo in un quartiere popolare di Bologna, giocavo con altri bambini tutti del sud, ci chiamavano ‘marocchini’. Io è tutta la vita che mi sento un immigrato, un terrone, un indiano tra i cowboy”. Per lui i fatti privati sono sicuri come un fiume che scorre placido da un’onesta mediocrità a un onesto agio. A un certo punto cita un racconto di Piero Chiara, il più efficace narratore italiano di storie provinciali. “Io vivo in quella dimensione là”, dice. “Mi sento come in quel racconto in cui Chiara, cresciuto al nord da genitori meridionali, incontra i suoi parenti in Sicilia. Prima non li capisce. Quasi li disprezza. Poi invece si rende conto di appartenergli con tutto se stesso. Prima parlavamo del denaro, della ricchezza. Ecco, io sin da bambino ho visto mio padre lavorare sempre, spaccarsi la schiena dalla mattina alla sera, soffrire, dover fare dei sacrifici per mantenere la famiglia. Io questo non lo volevo più. Avevo trentasei anni quando ho iniziato a lavorare nello spettacolo, prima ero impiegato alla regione, in Emilia. Non ho mai cercato il lusso, non me ne frega niente, non ho la barca, non affitto l’aereo privato, non ho servitù, abbiamo una signora che viene a dare una mano per le faccende domestiche un paio di volte la settimana. Io, se non pesco, passo la domenica a preparare il pane, è il mio hobby…[e qui Caschetto mi mostra il suo cellulare, ci sono foto di forme di pane di foggia diversa. Lui è serissimo mentre ne parla, il viso gli si accende per la prima volta, un viso segnato, sensibile, con occhi di levantino triste: “Questo è un pane di Matera, lo impasto a mano, tutta semola di grano duro. Il venerdì, mentre sono in giro per lavoro, mio padre recupera il lievito madre, poi il sabato io lo vivifico con acqua e farina, e la domenica si cuoce”. Deve avere un enorme laboratorio in casa. “No, faccio tutto in cucina”. E sua moglie non si arrabbia? Farà una confusione pazzesca con tutta quella farina che svolazza da una parte all’altra. “Sono diventato ordinato. E poi mia moglie mi assiste”. Diciamo che controlla]

 

… Ma ho sempre avuto paura di soffrire. Se mia madre sta male voglio poterla proteggere. Se qualcuno della mia famiglia ha bisogno di aiuto, voglio potergli risparmiare il dolore. Certe sfighe della vita non le puoi cancellare. Ma il denaro ti aiuta a evitarne tante altre”. Che studi ha fatto? “Ho fatto il liceo scientifico, mi iscrissi anche all’università, a Giurisprudenza, ma non completai gli studi, a diciott’anni ero già padre. Per un periodo della vita ho pensato di poter fare il prestigiatore, il mago, l’illusionista negli spettacoli. E’ una passione che mi è rimasta”. Poi il primo impiego, un posto sicuro, “fino a quando Bibi Ballandi non mi offrì di andare a lavorare con lui nel management dell’intrattenimento”. E da quel momento in poi è come se Caschetto avesse agito con rigorosa assiduità in una determinazione infallibile, minuto per minuto, e nella premeditazione sistematizzata d’ogni proprio gesto o parola o azione: “Il denaro, il successo, il benessere per sfuggire al malessere”. Lei è stato anche iscritto alla Cgil. “Ho militato nella Cgil per anni, ma non sono mai stato comunista, ero lombardiano. Lavoravo per l’ente che gestiva le mense universitarie a Bologna. Poi vinsi un concorso in regione, ci andai, e un giorno un importante assessore comunista mi chiamò nel suo ufficio: ‘L’ho osservata, ho chiesto informazioni, lei è bravo, mi farà da capo di gabinetto’. E io: ‘Ma guardi che non sono comunista’. E lui: ‘Appunto, così almeno tu non vai a raccontare i cazzi miei a quelli del partito’”.

 

[**Video_box_2**]Aldo Grasso dice che lei è il Lucio Presta di sinistra. “So che in questa definizione c’è una provocazione. E mi hanno insegnato che alle provocazioni non si risponde mai. In vent’anni di carriera non ho mai replicato a un critico. Credo che l’esercizio della critica sia necessario, oggettivamente. A me preoccupa l’eccesso di consenso. La ricerca spasmodica del consenso mi inquieta”. La descrivono come un uomo potente, gli dico. E a questo punto rivolgo a Caschetto uno sguardo comprensivo, simpatetico, invitante: accogliente come una trappola. Lei è l’uomo più potente della televisione italiana, gli dico. “E a me conviene lasciarlo credere”, dice lui, con innocenza ostinata. “Intorno alla mia figura si è creata una mitologia che mi infastidisce, un’idea di potenza che è sballata”, aggiunge. “Non è l’agente che cambia le cose, non è l’agente che determina il successo di un artista o di un conduttore televisivo. Io posso influire in alcune cose. Lei ha visto la partita tra la Roma e la Juventus l’altra sera?”. Un po’. “Ecco, allora si sarà accorto che alla fine del primo tempo sono andati in onda due spot. Uno della Vodafone con Fabio Volo e uno della Telecom con Pif. Sia Volo sia Pif sono miei clienti. Secondo lei, io come ho ottenuto i due contratti con le due principali aziende di telefonia mobile di questo paese? Con la minaccia? Figurarsi se si fanno minacciare. La mia abilità consiste nel valorizzare le qualità dei singoli, capire quando è il momento di fare qualcosa, ma anche di cambiare. E gli prolungo la vita artistica. Io ho un’idea precisa. C’è una cosa che ripeto sempre ai miei clienti: non devi diventare il personaggio del momento perché, se lo diventi, sei il personaggio di ‘quel’ momento. E ‘quel momento’, mentre te lo godi, è già passato”. Dicono che voi agenti imponete gli artisti. Andate da quelli della Rai, da quelli di Mediaset, e gli dite: vuoi Crozza, allora ti devi anche prendere Tizio, Filano e Martino… “Sono disposto a scusarmi pubblicamente se lei trova un solo direttore di rete televisiva italiana cui io avrei detto: ‘Ti do questo artista ma tu mi devi prendere anche quest’altro. E’ una cosa che non si fa. E non si fa anche perché è stupida. Controproducente per uno che fa il mio lavoro: diventi il cliente del tuo cliente. Sei debole. E colleghi la carriera di tutti i tuoi artisti a quella dell’artista principale. Con il risultato che se quello per caso smette di lavorare, poi smettono tutti di lavorare. E tu vai gambe per aria. Io quando voglio contattare un direttore di rete chiamo la segretaria. Aspetto. Faccio anticamera. Rispetto l’etichetta, la buona educazione, la forma è sostanza. Le regole sono importanti. L’ho imparato nella Cgil. Ho imparato più regole nella Cgil che altrove. Le regole aiutano i deboli. E io le regole le rispetto e le faccio rispettare anche nel mio lavoro. I contratti, i patti, sono sacri. Io faccio delle contrattazioni alla morte per i compensi dei miei clienti, per i dettagli anche più insignificanti di un accordo. Ma una volta siglato, quel contratto poi va rispettato”. Etica, morale… ma davvero lei è un uomo così rigido? “Guardi, non sono un trappista né un evangelizzatore, ma queste sono cose che insegno anche ai miei clienti. Nel 1994 decisi di separarmi dall’artista che in quel momento mi dava da vivere perché non rispettava i patti che avevo siglato”. Chi era? “Non posso dirglielo”.

 

Nella televisione italiana c’è poco talento. Tanti piccoli divi, ma nessuno insostituibile, unico. Michele Santoro ha inventato un linguaggio, ha creato televisione. Maria De Filippi ha imposto persino dei neologismi: tronista. Ma sono eccezioni. Esiste il successo senza talento? “E’ sempre esistito. Ma è l’idea diffusa che dietro il successo si nasconda sempre qualcosa di opaco a essere profondamente sbagliata. Persino malata. E’ da matti pensare che chi ce la fa in televisione, come in qualsiasi altro campo, ce la fa perché appartiene a un clan, a una casta. Si può legittimamente pensare, e lo condivido anche io, che il vero talento, in Italia, sia poca cosa rispetto al passato. Poco in televisione, poco nel cinema, poco nella letteratura. Ma è questa generale, diffusa voglia di appendere le persone per i piedi che non va. L’Italia è diventata un paese di regolatori di conti, di rivoluzionari senza rivoluzione, di giacobini, di livorosi tagliatori di teste. Se un calciatore non funziona, non lo fai giocare, mica lo impicchi. Se un uomo di spettacolo non ti piace, non vai a vederlo, mica cerchi di appenderlo a testa in giù. La rottamazione, per esempio, è un’idea giusta se significa progresso, cambiamento, velocità. Io ho votato a sinistra anche alle ultime elezioni europee. Ma esiste pure una degenerazione del concetto di rottamazione. E il confine è labile”. Il confine tra Grillo e Renzi? “Rottamazione è una parola che può contenere, ben occultata, anche della violenza. Non tutto ciò che è vecchio va buttato via. Spesso essere vecchi significa saper fare”. Mi dice qual è il talento di Carlo Conti? “Esiste anche un talento della medietà. Era il talento di Mike Bongiorno, per esempio”.

 

Giovanni Floris è stato considerato dalla Rai un talento intercambiabile, dunque un mezzo talento, un quasi talento, forse un senza talento. “E hanno sbagliato”. Ma è davvero un talento così unico da essere insostituibile, Floris? “Lo hanno sostituito con Massimo Giannini, che fa meno ascolti. E non c’erano ragioni industriali, oggettive, per cambiare. Adesso non serve stare qui tra noi a discutere se Floris sia o meno un talento unico, per me lo è. Ma basta guardare i risultati di ‘Ballarò’ oggi: un bravissimo e autorevole giornalista della carta stampata, una delle firme migliori di Repubblica, è stato mandato allo sbaraglio nella prima serata televisiva, in un contesto difficilissimo, da una classe dirigente che non sa pensare la tivù. Potevano farlo crescere, farlo impratichire prima con il mezzo televisivo, e intanto confermare Floris che invece andava alla grande”. Costava troppo. “Non è per questo che non è stato confermato il contratto”. E qui Caschetto si rivela maestro nel suggerire un’idea senza neppure disegnarne verbalmente il contorno: per accenni, per prove e controprove laterali, per mute attese. “Guardi”, riprende, “non c’è televisione senza volto televisivo. Una volta Ballandi disse a un broadcaster con il quale stava trattando: ‘Tu hai la pista, io ho i piloti’. Senza i piloti, la pista diventa come il circuito di Imola, un parco verde e vuoto. Così è la televisione senza volti. Il volto televisivo di successo è una risorsa per le tivù, non un nemico. Alla Rai c’è sempre meno pensiero industriale. Per esempio: che senso ha avere tre reti televisive, che rispecchiano la vecchia tripartizione – socialisti, cattolici, comunisti – nell’Italia di oggi, che semmai è divisa tra ‘possibilisti’ e ‘antagonisti’, cioè tra chi vota le forze, diciamo così, ‘dell’arco costituzionale’, e chi invece pensa che tutto vada spazzato via da uno tsunami tour. Con una rete in meno, la Rai avrebbe più risorse, più denaro, farebbe più servizio pubblico, potrebbe trasmettere persino il calcio, ed esercitare un ruolo culturale, unificante, nazionale. Oggi non c’è un solo canale che ci dica cosa abbiamo in comune l’uno con l’altro noi italiani”.

 

(Ps. L’intervista a Milano è durata tre ore. Il giorno seguente Caschetto mi ha telefonato. La conversazione, breve, si è svolta in tono scherzoso: “Lei mi ha capito, o ha la sensazione di essere davanti a un enigma?”. Risposta: “Non so ancora se lei è un volpone o un mostro di umanità”. Così ci siamo rivisti a Roma, per altre due ore, nella sala da tè Babington in piazza di Spagna. A me il dubbio è rimasto. Lui invece per la prima volta ha sorriso, mi ha regalato un pacchetto di tè molto profumato, e poi, con la stessa gravità con la quale parla di tivù, mi ha pure spiegato come andava preparato e bevuto)
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La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio), Ezio Mauro (22 febbraio), Giancarlo Leone (1° marzo), Flavio Briatore (7 marzo), Fedele Confalonieri (15 marzo), Giovanni Minoli (29 marzo), Luca di Montezemolo (3 aprile), Urbano Cairo (10 maggio), Claudio Lotito (2 luglio), Giovanni Malagò (26 luglio)

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.