Ryan ha un piano per riportare a destra la guerra alla povertà

La “war on poverty” monopolizzata dai democratici americani non ha azzerato la povertà e ha creato una “cultura della dipendenza”. Il progetto presentato ieri dal deputato conservatore è un canovaccio moderato per spendere meglio, senza tagli e con affinità con i “reformicon” centristi.

New York. Il deputato repubblicano Paul Ryan ha presentato ieri una proposta per combattere la povertà intitolata “Expanding Opportunity in America”, dettagliato progetto di riforma a costo zero per rendere più efficiente l’erogazione di benefit da parte dello stato per i meno abbienti e per quella fetta di middle class che la stagnazione ha spinto verso la povertà. Il documento è frutto di mesi di lavoro di un team di studiosi che con Ryan condivide un approccio pragmatico ai problemi del welfare americano, ma la riforma fornisce anche un’altra prova del più ampio processo di ridefinizione dell’identità in corso all’interno del movimento conservatore. Il messaggio politico saliente trasmesso da Ryan e soci è: la lotta alla povertà è una questione di destra. Storicamente la sinistra si è arrogata il diritto esclusivo di maneggiare il sistema assistenziale per gli ultimi, relegando il partito repubblicano al ruolo di rappresentante politico dei bianchi ricchi, parte in via di marginalizzazione in un’America che è sempre meno bianca e meno ricca, come testimoniano i trend demografici e le analisi economiche. Mitt Romney incarnava perfettamente l’immagine opulenta, insensibile e classista che la sinistra voleva appiccicare sul partito repubblicano, e dopo la sua disastrosa sconfitta nel 2012 contro un Barack Obama già molto logorato, il Gop  – a partire dal suo compagno di ticket, Ryan appunto – ha seriamente iniziato a riflettere sulla ricetta politica per ritornare a competere. Trasformarsi dal braccio politico di un blocco sociale in esaurimento al “partito delle idee”, questa è la sfida repubblicana. Una parte ha preso la via dell’intransigenza libertaria e del Tea Party permanente; un’altra ha imboccato la strada delle riforme, a partire da quelle su cui il movimento conservatore ha ragionato con meno convinzione negli ultimi tempi, ad esempio la lotta alla povertà. Il piano di Ryan va inquadrato in questo contesto per poterne apprezzare la portata politica.

 

Il cinquantesimo anniversario della “war on poverty” di Lyndon Johnson fornisce un’ottima occasione ai repubblicani per suggerire un cambio di paradigma nell’affrontare il tema: il nebuloso e pervasivo sistema di sussidi annunciato nel gennaio del 1964 era figlio dell’impostazione ideologica della “Great Society”, sistema di welfare basato sostanzialmente sull’erogazione diretta di sussidi ai poveri da parte del governo federale. Dopo cinquant’anni e 21 mila miliardi di dollari allocati da Washington rimangono ancora oltre 46 milioni di americani sotto la soglia di povertà, e l’idea democratica non ha raggiunto il suo scopo dichiarato: “Non solo alleviare i sintomi della povertà, ma curarla e, soprattutto, prevenirla”, come diceva Johnson. Inoltre, notava Ryan qualche mese fa, i sussidi a pioggia, i “food stamps”, gli assegni per la disoccupazione e tutti gli altri strumenti assistenziali disincentivano il lavoro e hanno creato una “cultura della dipendenza” che non ha cittadinanza nell’America della responsabilità indivuale. Milioni di americani che vivono sotto la soglia di povertà, ad esempio, si affidano al lavoro nero per non perdere il diritto ai benefici elargiti dal governo: “Troppa gente ormai non sa più in cosa consista l’idea americana”.

 

Il piano Ryan offre un’alternativa credibile a quel modello fallimentare. Il primo punto è la semplificazione. Il deputato propone di far confluire i 92 programmi federali di assistenza in un unico bacino. Lo stato spende 800 miliardi di dollari l’anno per i poveri, ma lo fa in modo “frammentato e pletorico”, senza “capire come le necessità delle persone interagiscono fra loro”. In più, lo stato basa il successo della sua performance sulla quantità di risorse allocate, non sui risultati che ottiene, il che ripugna alla mentalità conservatrice. Secondo punto: decentralizzare. Ryan propone che siano i singoli stati, su base volontaria, a erogare i servizi, con i metodi e le modalità che troveranno più efficaci, a seconda delle circostanze. Lo stato federale nell’idea di Ryan fa un passo indietro, ma non per scomparire del tutto, piuttosto rimane in campo come arbitro delle varie proposte elaborate localmente: “Flessibilità in cambio di responsabilità”, la chiama Ryan. I vari stati, dunque, propongono i loro piani a Washington, che li approva soltanto se soddisfano quattro rigorose condizioni: lo stato deve spedere tutti i fondi per le persone che ne hanno effettivamente bisogno; il piano deve contenere requisiti di lavoro per chi ne beneficia e i sussidi devono essere limitati nel tempo, cosa che avviene già oggi per chi riceve contributi in denaro; lo stato deve presentare almeno due soggetti che implementano il programma, in modo da creare competizione, migliorare la qualità del servizio e contenere i costi; l’ultima condizione è l’istituzione di una commissione tecnica che valuti le performance.

 

Un passo verso il centro
Quella che propone Ryan è una rivoluzione metodologica e politica, non di bilancio. “Expanding Opportunity in America” non prevede alcun taglio di fondi assistenziali, cosa che segna anche un cambiamento della posizione dell’ex candidato vicepresidente nei confronti dei cosiddetti “reformicon”, la pattuglia di conservatori riformisti che si muovono attorno all’American Enterprise Institue e al trimestrale di policy National Affairs. Finora Ryan aveva invocato tagli con l’accetta alla spesa pubblica, proprio a partire dal welfare, in linea con i sentimenti più intransigenti del conservatorismo, mentre ora fa un passo verso il centro, costringendo persino il deputato Chris Van Hollen, suo omologo a sinistra, a dire a denti stretti che “il partito democratico accoglie ogni proposta che possa diminuire la povertà”. In questo caso la proposta non costa di più di quello che lo stato spende oggi. Spendere meno è il programma massimo, spendere meglio il primo passo.

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