Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e il regalo ai pm nella delega fiscale che spaventa gli investitori

Enrico Nuzzo

Pressione fiscale insopportabile (al 68,5 per cento per la Banca mondiale!) e regole non chiare. Ecco perché all'estero sconsigliano di investire in Italia.

A margine di un incontro di lavoro, il rappresentante di un’importante società finanziaria estera così ha spiegato la sua scarsa propensione a consigliare investimenti in Italia: pressione fiscale insopportabile (al 68,5 per cento per la Banca mondiale!) e regole non chiare; legislazione del lavoro complessa e farraginosa; burocrazia invadente e incapace di dare risposte alle istanze degli investitori; politica onnipresente e, specie a livello locale, sempre pronta a tirare strumentalmente in ballo argomenti per giustificare dinieghi. Il governo in carica vuole agire per “rottamare” quel che in questo paese non va e procede spedito sul terreno delle riforme, anche con l’obiettivo di invogliare investitori. Come non convenire su di un programma siffatto, specie se realizzato a “colpi” di soluzioni appropriate?

 

E’ in cantiere, con delega fiscale, la riformulazione della disciplina dell’elusione e/o dell’abuso del diritto in ambito tributario, la cui configurazione potrà non soltanto incidere sull’attrazione di capitali esteri ma, addirittura, sulla permanenza nel paese delle nostre imprese più attive e vitali. Da quando le prime norme in materia hanno fatto capolino nel nostro ordinamento si è registrata una vera sbornia di contestazioni e di orientamenti dei giudici – per fare qualche esempio – in materia di operazioni societarie (fusioni, conferimenti di aziende, eccetera), cessioni di beni e servizi e interessi su prestiti tra imprese con sede in Italia e altre all’estero appartenenti allo stesso gruppo (il cosiddetto “transfer pricing”). E si è dovuto assistere al continuo fiorire di qualificazioni formali “innovative”, di richiami (non sempre calzanti) a princìpi costituzionali, di sovrapposizioni nell’esercizio del potere di contestare violazioni. L’elusione fiscale è divenuta abuso del diritto, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, e il giudice tributario – si è “scoperto” – può sindacarla, pur quando l’operazione non è stata censurata dall’Agenzia delle entrate. L’ordine giudiziario diventa creatore di norme e soppianta il potere legislativo. E’ del tutto ovvio che occorre porre rimedio all’inverosimile situazione descritta, rimodulando, in maniera coerente, la delicata e complessa materia. E tanto, nel contesto del più ampio programma di riforme, concepite per fare dell’Italia un paese normale. In siffatta prospettiva alcuni capisaldi, per la questione di cui ci si occupa, vanno tenuti costantemente presenti, per scongiurare scelte non in linea con gli obiettivi appena evocati. Abuso del diritto ed elusione vanno ricondotti a formula unitaria e a un’unica regolamentazione, per evitare sovrapposizioni di princìpi, concetti, figure, discipline. Capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione) e abuso del diritto non possono utilizzarsi come facile giustificazione per “scovare” illeciti in qualsivoglia fatto d’imposta.

 

E’ evidente che con l’aggiramento di norme si sottraggono somme al fisco, violando, appunto, il principio di capacità contributiva. Altrettanto evidente, per non incorrere in eccessi di segno contrario, è che occorre tipizzare le ipotesi di abuso, scolpendole nella norma scritta. E’ questo il solo modo per impedire che ogni cosa diventi, come pure è avvenuto, fattispecie illecita e che l’arbitrio amministrativo possa, senza sosta, continuare a forgiare, a piacimento, comportamenti passibili di censura. L’esperienza fin qui acquisita dovrebbe porre nelle condizioni di dettare specifica e puntuale disciplina delle condotte elusive, senza far ricorso a formule astratte, idonee a giustificare tutto e il contrario di tutto, così come consentito dal semplice richiamo all’uso distorto di strumenti giuridici. E’ questo uso distorto che deve essere, nella norma, non soltanto genericamente enunciato, ma ricondotto a specifiche fattispecie, rigorosamente delimitate e circoscritte. La qual cosa può farsi assumendo a stella polare dell’emanata disciplina le ragioni economiche alla base delle scelte d’impresa tradotte in atti, contratti, comportamenti, e così via. E deve trattarsi di ragioni economiche extrafiscali, risalendo alle motivazioni delle scelte poste in essere, evitando, per quanto possibile, di ricadere nelle formule generiche dell’aggiramento di obblighi e divieti, vero paradiso di discrezionalità amministrativa e territorio di caccia prediletto dagli organi accertatori. Atti, fatti, negozi costituiscono la strumentazione offerta dall’ordinamento per gestire gli affari d’impresa e, attentamente analizzati, consentono di verificare se alla base del loro impiego sono ravvisabili, o meno, corrette motivazioni economiche, pur quando sono assoggettati a un regime fiscalmente meno oneroso di altri, parimenti regolamentati. Il tutto per porsi nelle condizioni di riconoscere e distinguere condotte rispettose del precetto fiscale da quelle che tali non sono e che, per ciò stesso, debbono, e non possono che essere, rigorosamente sanzionate.

 

(Enrico Nuzzo è Ordinario di Diritto tributario all’Università Federico II di Napoli)

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