Da Borges a Concita: tentativi (a volte maldestri) di infangare l'epica del calcio

Manuel Peruzzo

Dai grandi detrattori del pallone che ne contestavano la commistione con la politica a chi ci ha provato (malamente).

È un mistero. Nessuno è riuscito a dare una spiegazione soddisfacente al perché il calcio sia, differentemente da altri sport, un fenomeno popolare e sociale, una macchina di passioni, di aggregamento e di intrattenimento mondiale. Ma non tutti lo amano. Certamente non piaceva a Jorge Luis Borges, il quale brutalmente dichiarò in un'intervista che «il calcio è popolare perché la stupidità è popolare», aggiungendo che rappresenta uno dei più grandi crimini inglesi ed è esteticamente orrendo (siamo certi che se avesse potuto vedere Cristiano Ronaldo avrebbe cambiato idea, almeno su quest'ultimo punto).

 

Ma perché Borges odiava il calcio? si domanda il New Republic. La risposta sembra essere legata alla tifoseria più che al gioco in sé, o meglio, a tutti quei significati simbolici che infiliamo nel pallone fino a farlo scoppiare. Per Borges, che nella sua vita ha vissuto fascismo, peronismo e antisemitismo, fu immediato il sospetto verso ogni movimento popolare di massa. «C’è un’idea di supremazia, di potere [nel calcio] che mi sembra orribile», scrisse.

 

Come racconta il giornalista sportivo Dave Zirin in un libro sui rapporti tra calcio e identità nazionale, la dittatura brasiliana realizzò una gigantografia di Pelé in cui calciava in favor di camera, accompagnato dallo slogan Ninguém mais segura este país, cioè nessuno può fermare questo Paese ora. Era il chiaro tentativo del governo di sfruttare l'immagine di un grande campione per legittimarsi, rafforzare l'identità nazionale e raccogliere il sostegno popolare. È ipotizzabile credere sia uno dei principali motivi che fece allontanare Borges dal calcio. Ma non il solo.

 

Un’altra spiegazione è contenuta in un racconto breve, Esse Est percipi, essere è esser percepiti, in cui la rappresentazione dello sport sostituisce lo sport, ovvero le partite vengono giocate da attori e ripresi per la televisione. Lo spettatore, ipnotizzato dal proprio fanatismo, non si accorge di nulla. Nazionalismo e spettacolo, fanatismo e stupidità. Questi sono più o meno gli stessi motivi per cui Thomas Bernhard in Origine, scrive: “È sempre stata attribuita allo sport, in ogni epoca e soprattutto da ogni governo, un’importanza grandissima, per la buona ragione che lo sport intrattiene e obnubila e rimbecillisce le masse, e in primo luogo le dittature sanno bene perché sono sempre e in ogni caso favorevoli allo sport”.

 

Paradossalmente il calcio può essere odiato anche da chi sostiene la tesi opposta, cioè da quegli americani che lo considerano antiamericano, veicolo di globalizzazione e immigrazione, e persino sport femmineo. Politico, in un articolo dal titolo Perché il calcio è anti-americano, lo ha definito «un gioco tragico», i conservatori del National Review Online hanno titolato: Calcio: lo sport ufficiale del terrorismo, ricordando il tempo in cui la dittatura di Salazar in Portogallo imponeva le tre F: fado, futebol e fátima; infine, la commentatrice politica Ann Coulter in un articolo molto condiviso sui social (oltre 400 mila volte) ha scritto che "ogni crescente interesse per il calcio può essere solo un segno di decadenza morale della nazione”. Non proprio un esempio di sobrietà.

 

Se per i conservatori americani è una questione di minaccia e corruzione identitaria, essendo il calcio percepito come tipicamente europeo e sudamericano, a noi non va poi tanto meglio. Giovanna Cosenza ne ha lamentato lo spirito «sempre più corrotto, finto, sporco e simboleggia tutto ciò che di corrotto, finto e sporco c’è in Italia», dove i guadagni dei calciatori sono simbolo di ingiustizie sociali, come ripete anche Lorella Zanardo per cui il calcio è uno «sport antipatico dove si strapagano i campioni, si creano guadagni mostruosi e ingiusti».

 

La celebre frase di Churchill va oggi riadattata. Gli italiani scrivono di guerra come fossero partite di calcio e di calcio come guerre. Concita De Gregorio a seguito di Italia-Uruguay ha scritto un articolo dal titolo: “Il senso di una fine”, e che inizia così: «Una squadra, un Paese. Se questa è la notte del calcio è perché è buio in Italia»; ha inoltre raccontato così il 7 a 1 di Germania-Brasile: «una violenza feroce e crudele che infierisce su un corpo, una squadra, un Paese» e «un dolore che non basterà la vita a dimenticare».

 

Certo, in tutto il mondo lo stile retorico nella recensione calcistica è iperbolico e spesso fastidioso, pieno di metafore di guerra, di violenza simbolica, di scontri tra nazioni anche feroci. Ma siamo sicuri: tutte queste metafore tragiche non servono né al calcio né a chi legge. Commentando i titoli delle principali testate brasiliane l'indomani del tragico risultato, il New Yorker ha scritto che dovremmo bandire il linguaggio dell'onore nazionale, della credibilità e dell'umiliazione e sostituirlo con del buon senso.

 

Il pallone degli scrittori e dei giornalisti è così pesante che a tentar di calciarlo ci spaccheremmo un piede. Eppure, tra tutte le immagini indigeste qui proposte ce n’è una che funziona. In una delle tante copertine della lagna sudamericana post disfatta, lagna che è poi quella italiana essendo noi più sudamericani di tutti, c’è un pallone sgonfio in copertina. E ritorna alla mente quello che una volta disse Giovanni Trapattoni, e che oggi potrebbe suonare un ottimo consiglio di stile: Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticato che è gonfio d'aria.