“Stavolta andrà bene”. L'Olanda è viva, vera e sa uscire dai casini

Pierluigi Pardo

Bernardo Oude Kamphuis è vestito tutto d’arancione. Zoccoli di legno. La sua Chevrolet del 1955 del medesimo colore è parcheggiata da venti giorni davanti al Caesar Park Hotel di Ipanema. Diecimila chilometri, da San Francisco, dove vive, fino a Rio de Janeiro, per sostenere l’ennesima speranza olandese.

Bernardo Oude Kamphuis è vestito tutto d’arancione. Zoccoli di legno. La sua Chevrolet del 1955 del medesimo colore è parcheggiata da venti giorni davanti al Caesar Park Hotel di Ipanema. Diecimila chilometri, da San Francisco, dove vive, fino a Rio de Janeiro, per sostenere l’ennesima speranza olandese. “Sono un semplice tifoso – dice – e ho deciso di fare questa follia la notte della sconfitta contro la Spagna, quattro anni fa a Johannesburg. Stavolta andrà bene”. Non è il solo a pensarlo. L’ottimismo della volontà.

 

Un mare arancione, come sempre, contrapposto alla Barra Brava, all’altra invasione, quella potenzialmente pericolosa (duemila tifosi daspati, uno dei leader, Pablo Alvarez arrestato due giorni fa a Brasilia) degli argentini. I tifosi Oranje bravi lo sono per davvero. Del resto occorrono pazienza a pacchi ed entusiasmo incrollabile per crederci ancora. Capacità di reagire alle ingiustizie della storia del calcio. Ai piccoli dettagli che separano inesorabilmente i trionfi dalle miserie, gli splendori dai fallimenti, lasciando a uno solo la gioia di festeggiare, mentre l’altro si chiede se ne valeva la pena, fare tutto il viaggio e cadere sull’ultimo metro. A loro è successo tre volte. Tre finali perse lasciano il segno. Si ragiona sul valore del destino, sull’importanza dell’episodio, su pragmatismo e idealismo, estetica del gioco e centralità del risultato, su conservazione e rivoluzione, ma soprattutto, alla fine di tutto, sul senso cosmico della sfiga.

 

In quella specialità l’Olanda è indubbiamente campione del mondo ad honorem, coppa Rimet alla carriera. Che non abbia vinto niente negli anni Settanta rimane un mistero, nemmeno troppo buffo. In quel periodo Ajax e Nazionale hanno cambiato per sempre il Gioco. Una rivoluzione che coincideva con quella della società. Il Sessantotto del calcio. Gli ideali, l’etica, il collettivo, le mogli in ritiro per fare tiki-taka, quattro decadi prima di Mangaratiba.

 

La legge morale dentro di sé, sotto a quelle maglie arancioni e il cielo stellato sopra. Quello di Monaco di Baviera, quarant’anni e due giorni fa. Una finale che sembrava scritta. Troppo più alto e artistico il calcio totale, il talento di Cruijff. Troppo perfetta l’azione del primo gol, dopo sessanta secondi senza aver fatto toccare il pallone ai tedeschi. Tutto quell’avvenire però non avvenne mai. Per il carattere incrollabile della Deutsche Mannschaft, o forse per il caso, semplicemente.

 

[**Video_box_2**]Quattro anni dopo, in Argentina, tra combine e generali, arbitraggi illogici e questioni di centimetri, più o meno gli tocca lo stesso destino. Sconfitta ai supplementari, la resa alle corse di Mario Kempes, il rimpianto di una generazione magnifica che aveva perso la sua ultima occasione (Cruijff si era ritirato dalla Nazionale, l’anno precedente). Il palo di Rensenbrink, per rendere tutto, se possibile, ancora più letterario. E ancora, quattro anni fa, con lo spirito underdog di chi non è favorito, vittoria dopo vittoria, fino a quelle due occasioni di Robben, buttate via. Quindi, a tre minuti dai calci di rigore, l’Iniestazo, il gol che mette fine al sogno. Ancora una volta, solo rimpianti. Anche qui, in questo pezzo di Sudamerica, la Chevrolet di Bernardo è partita coi fari spenti.

 

L’accelerazione contro la Spagna è stata straordinaria, i finali in salita con Messico e Costa Rica complessi ma ancora più significativi. Parlano di una squadra vera, che sa soffrire e uscire dai casini. Sono ancora vivi, gemellati col popolo carioca che confida in loro per rispedire Messi e Barra Brava a sud, oltre il confine ed evitarsi altro dolore dopo quello del Mi. Van Gaal ha scelto l’eresia della difesa a tre. Blasfemo. Ha cambiato faccia in corsa, e il portiere, Krul, per i rigori. Il calcio totale è diventato furbo e parziale. Machiavelli avrà pure contaminato la purezza arancione. Ma se dovesse alzare la coppa, domenica sera, nell’inverno tenero e sentimentale di Rio, non sarebbe di certo un problema.