Dentro un centro “informale” di disintossicazione a Teheran

Redazione

Una linea divide i consumatori: da una parte gli oppiomani intorpiditi, dall’altra chi prendeva i “cristalli”.

Teheran. Alle spalle la capitale si fa sempre più piccola ma la macchina prosegue tra le campagne deserte e gli arbusti e, dopo avere imboccato sentieri non battuti, giunge a destinazione. Un alto muro eretto in mezzo al nulla non lascia intravedere al di là, ma è il proprietario del luogo a svelare di lì a poco cosa si nasconde oltre il cancello gigantesco. Non ha l’aria di un rehab per celebrità americane, quelle ville circondate da un rigoglioso praticello profumato e ben tagliato e pazienti che leniscono le loro pene tra una partita di tennis e un tuffo in piscina. Questo minuscolo centro di disintossicazione fuori Teheran, con sbarre alle finestre e una forte luce al neon che fa sembrare fantasmi i coinquilini, è un posto timorato di Dio. E’ stato aperto soltanto tre mesi fa e già odora di decadenza. Una grande sala, che funge da stanza da letto, salotto, cucina e spazio ricreativo e di riunione, ospita 17 dei 20 pazienti, mentre i tre rimanenti, avvolti in coperte sudice e gettati su stuoie di un ripostiglio, tra mugolii e imprecazioni si sforzano di scacciare i sintomi dell’astinenza da droghe assunte per troppo tempo.

 

Hussein è il proprietario trentanovenne e una volta era come loro. Quell’omone dallo sguardo placido e modi garbati è stato tossicodipendente per 17 anni prima di guarire e aiutare gli altri. Se non fosse stato per un angelo salvatore del quale non vuole fare il nome, Hussein si starebbe ancora facendo di crack (versione iraniana a base di eroina), cocaina, metadone, ecstasy e Tramadol, il suo cocktail abituale, senza paura. O forse il suo fisico a un certo punto non avrebbe più retto il ritmo. Chi lo sa. Ora gestisce e finanzia interamente uno dei 500 centri di riabilitazione informali di Teheran, unico approdo per chi non riesce a rientrare nelle liste stringate degli ospedali statali o non può permettersi il ricovero in una clinica privata. Nonostante il numero di “campi” sia elevato, è spesso impossibile anche per loro sostenere il numero di domande di asilo temporaneo.

 

Il motivo è l’ampiezza destabilizzante del fenomeno. L’Iran ha il primato negativo per numero di tossicodipendenti al mondo. Le cifre ufficiali, che non tengono conto di moltissimi fattori come la mancanza di conoscenza o mezzi, o la semplice paura di esporsi, parlano di tre milioni di persone (2,8 per cento della popolazione), ma, secondo le stime sussurrate nelle retrovie da medici ed esperti, la cifra potrebbe essere quattro o cinque volte superiore.

 

Per evitare scontri tra i pazienti del centro, la stanza principale del caseggiato è stata organizzata da Hussein secondo un criterio facile. Una linea immaginaria separa i passivi e sonnolenti dipendenti da narcotici tradizionali – oppio e derivati – e coloro, la maggior parte, che sono caduti nella trappola di una nuova e subdola sostanza psicoattiva, cioè una metanfetamina prodotta localmente dal nome di shishe (cristallo).

 

Mentre chiacchiero in un angolo con Hussein, c’è un giovane visibilmente a disagio, incapace di adattarsi sia al gruppo di uomini consunti e dallo sguardo vacuo di destra, che a quello degli squilibrati individui di sinistra. Reza indossa una tuta da ginnastica, come i suoi compagni, ma la combinazione tra la scombinata cascata di ricci e gli occhiali alla moda, la carnagione chiara e il perfetto accento inglese fanno credere che sia stato vittima di un errore. Che ci fa lì? Quando alza lo sguardo da terra e mi fissa per qualche secondo, i suoi occhi parlano da soli. Ha bisogno d’aiuto. Era tirocinante presso un ospedale statale quando per un mal di denti gli fu prescritto da un collega un farmaco a base di oppio, la Petidina. Sotto pressione per l’enorme mole di lavoro e un matrimonio da far funzionare Reza entrò nel vortice della dipendenza. Mentre la moglie si distanziò da lui, Reza, tossicodipendente depresso, cominciò a vedere uno psicoanalista. Poi un giorno, in servizio in ospedale, cercava la Sertralina prescrittagli, quando un’infermiera gli porse una pipa e del “cristallo” e gli disse di fidarsi. “Fai una bella boccata e rilassati”, sussurrò dandogli un colpetto sulla spalla.  “All’inizio lo fumavo una volta a settimana, poi due, e alla fine tutti i giorni,” dice Reza con lo sguardo sommesso. “Senza accorgermene la mia vita è andata a rotoli, perché lo shishe altera la tua personalità e ti porta a fregartene di tutto e tutti”. A 24 anni Reza ha alle spalle un divorzio e una brillante carriera in frantumi.

 

Che la Repubblica islamica avesse problemi con le droghe non è una novità. Il lungo confine con l’Afghanistan, il più grande produttore d’oppio al mondo, la posizione di transito tra Asia ed Europa e il pesante stigma che il regime religioso ha imposto sul consumo di alcol, ha fatto sì che la popolazione riversasse le sue preoccupazioni sull’oppio, droga a bassissimo costo e alla portata di tutti.

 

Da sette anni, però, il consumo di questo narcotico e dei suoi derivati è stato sostituito da quello di shishe che, prodotto in laboratori disseminati ovunque nella capitale, è passato dai 100 dollari al grammo originali, che ne facevano una droga per pochi eletti, a una cifra forfettaria alla portata di tutti. Il modico prezzo si accosta alla capacità di questa droga di sedurre persone di ogni ceto o età.

 

I ragazzini consumano shishe per sballarsi con gli amici, i lavoratori per stare svegli giornate intere, gli uomini per illudersi di una migliore prestazione a letto, e le donne – il doppio rispetto al 2012 – per perdere peso e inseguire un vacuo sogno di perfezione. Anni fa raramente ci s’imbatteva in minorenni dipendenti da droghe, oggi sono almeno la metà.
L’abuso e dipendenza da droghe in Iran non ha soluzioni immediate. “Solo il 5 per cento dei pazienti in cura ce la fa a rimanere pulito una volta uscito,” dice Hussein. “La maggior parte, priva di possibilità, torna a fare la stessa identica vita di prima”.

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