Dipendenze statali

Cosa c'entrano sindacati e magistrati con il ritardo di Renzi sul testo della Pa

Claudio Cerasa

I nomi a rischio per le incompatibilità. Pressioni di Corte dei Conti e Consiglio di Stato. La mediazione del Quirinale. Il ruolo dei capi

Doveva essere martedì, e nulla. Doveva essere mercoledì, e ancora nulla. Doveva essere giovedì, e niente. Doveva essere ieri, e ancora niente. Insomma, il mistero c’è: perché a una settimana dall’approvazione in Consiglio dei ministri della “rivoluzionaria” riforma sulla Pubblica amministrazione il governo Renzi non ha ancora presentato un testo ufficiale? A cosa sono dovuti questi ritardi? E, in particolare, su cosa si sta ancora trattando? Lunedì prossimo, assicurano dal ministero della Funzione pubblica, il testo del decreto legge sarà definitivamente vidimato sia dal presidente della Repubblica sia dalla Ragioneria di Stato. Ma nell’attesa di avere a disposizione un documento ufficiale ciò che risulta al Foglio è che i ritardi sono dovuti non solo a una macchina del governo ancora non perfettamente collaudata (la settimana scorsa, per capirci, il decreto è stato approvato senza che molti ministri abbiano avuto la possibilità di leggere per intero il contenuto del testo) ma anche ad alcuni punti della riforma sui quali il presidente del Consiglio ha incontrato resistenze nei vari strati della burocrazia statale.

 

Dalla Corte dei Conti, all’Anm, passando per il Consiglio di Stato, la Cassazione e ovviamente anche il Quirinale. Il primo punto, sul quale Renzi dovrebbe aver ottenuto un risultato, è l’abrogazione del trattenimento in servizio. Espressione oscura dietro la quale si nasconde l’abolizione di una regola che consente ai dipendenti pubblici di restare al lavoro oltre i termini della pensione. La norma scatterà dal 31 ottobre. I magistrati, come si sa, hanno ottenuto una proroga al 2015. Ma, dicono a Palazzo Chigi, nonostante le proroghe il risultato non cambierà: ricambio, o meglio, “rottamazione” di tutti i vertici del vecchio personale togato con conseguente e automatico rinnovo dei vertici del Consiglio di Stato, della Cassazione e della Corte dei conti (dove su 450 magistrati totali quelli che con questa norma verranno mandati via saranno circa 110). Renzi promette che non mollerà sul tema della mobilità (il decreto dà la possibilità di ricorrere alla mobilità volontaria o obbligatoria per i trasferimenti entro lo stesso comune di residenza o in un raggio di 50 km) ma c’è un punto sul quale il governo ha dovuto fare un passo indietro importante.

 

[**Video_box_2**]Il punto in questione non riguarda il capitolo sindacati e non riguarda il famoso taglio del 50 per cento ai permessi sindacali voluti dal governo (ogni giorno ci sono 4.000 dipendenti pubblici in permesso sindacale retribuito, il governo ha scelto di dimezzare il monte ore per risparmiare circa 115 milioni di euro all’anno, è il calcolo del ministro Marianna Madia). Il taglio rimarrà, anche se nella contrattazione il governo ha promesso ai sindacati che non toccherà i 600 milioni di euro destinati ogni anno dallo stato ai patronati e ai Caf. Così come rimarrà un altro taglio considerato prioritario dal premier come quello previsto, sempre all’interno del decreto, alla voce Camere di commercio. In un primo momento Renzi aveva pensato di eliminare del tutto l’obbligo per le imprese di iscriversi alle Camere di commercio. Ma alla fine ciò che verrà confermato è un taglio dei contributi del 50 per cento (per capirci: nel 2013 per le imprese il costo dell’iscrizione alla Camera di commercio valeva 1 miliardo e 300 milioni l’anno, il prossimo anno sarà della metà, con un risparmio stimato intorno ai 650 milioni di euro). Le norme sulle quali il governo rischia di essere sconfitto sono invece soprattutto queste. Sono due. La prima riguarda il criterio di incompatibilità tra pensione e incarico pubblico. In sostanza, secondo questa regola, nessuna persona che riceve una pensione può ricoprire un incarico pubblico. Nulla, neppure nelle partecipate. Una norma severa che avrebbe fatto saltare teste pesanti come quella di Gianni De Gennaro (ex capo della polizia, oggi presidente di Finmeccanica) e come quella di Andrea Monorchio (ex ragioniere generale dello stato, oggi capo della Consap), ma sulla quale alla fine il governo ha ceduto alle pressioni esterne. Su questo e anche su un altro punto. Nel progetto iniziale del governo infatti era prevista un’incompatibilità assoluta tra il ruolo di magistrato e un incarico direttivo all’iterno di un ente pubblico. Esempio: vuoi fare il capo di gabinetto del ministero dell’Economia ma sei un magistrato? Prima ti dimetti da magistrato e poi potrai ricevere l’incarico. La norma, così come era stata progettata, avrebbe colpito alcuni pezzi da novanta delle burocrazie. Come Donato Marra (consigliere di stato, segretario generale della presidenza della Repubblica). Come Giovanni Melillo (capo di gabinetto del ministro della Giustizia ed ex procuratore aggiunto di Napoli). Come Roberto Garofoli (consigliere di stato e capo di gabinetto del ministro dell’Economia). Renzi aveva provato a ingaggiare una battaglia. Poi sono arrivate alcune telefonate (anche dal Quirinale) e l’incompatibilità è stata cestinata. Sarà sufficiente mettersi fuori ruolo. Ma su questo terreno, visti i nomi, le deroghe non dovrebbero mancare.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.