Trombati mondiali

Beppe Di Corrado

A un certo punto, prima di ogni Mondiale, arriva questo momento. Lo declini come vuoi, il tema, ma quello resta: gli esclusi. Quelli che non ci sono, quelli che non vedremo, quelli che ci mancheranno. Ora, noi ci siamo concentrati su Giuseppe Rossi: per tre giorni, la sua mancata convocazione è stata oggetto di dibattito, di chiacchiere, di certezze spacciate a ogni ora. Perché in fondo è facilissimo criticare un commissario tecnico: se va male, tutti possono alzare il dito e dire “io l’avevo detto”. Se invece va bene, nessuno si ricorda delle critiche e dei pregiudizi arrivati al momento delle convocazioni finali. Banale, ma reale: non preoccupiamoci, non siamo solo noi così. Condividiamo con il mondo intero il comune vizio di parlare di chi non c’è e il perché non c’è.

A un certo punto, prima di ogni Mondiale, arriva questo momento. Lo declini come vuoi, il tema, ma quello resta: gli esclusi. Quelli che non ci sono, quelli che non vedremo, quelli che ci mancheranno. Ora, noi ci siamo concentrati su Giuseppe Rossi: per tre giorni, la sua mancata convocazione è stata oggetto di dibattito, di chiacchiere, di certezze spacciate a ogni ora. Perché in fondo è facilissimo criticare un commissario tecnico: se va male, tutti possono alzare il dito e dire “io l’avevo detto”. Se invece va bene, nessuno si ricorda delle critiche e dei pregiudizi arrivati al momento delle convocazioni finali. Banale, ma reale: non preoccupiamoci, non siamo solo noi così. Condividiamo con il mondo intero il comune vizio di parlare di chi non c’è e il perché non c’è. Tanto anche per gli altri vale il discorso di prima, quello del “se va bene” o “se va male”. E comunque siccome è una tentazione irresistibile, perché non farlo? Perché non capire, raccontare, spiegare chi in Brasile non ci sarà? Con tutto l’affetto per Rossi o per Destro, e senza dimenticare che alla fine la gente parlerà solo dell’Italia, ci sono un sacco di giocatori che al Mondiale ci mancheranno. Se vuoi partire dagli infortunati devi andare indietro di qualche mese, al ginocchio rotto di Kevin Strootman: un giocatore fantastico tenuto fuori dal Mondiale per un piede messo male, forse per una zolla di erba e terra che s’è spostata troppo. Qualcuno se l’è dimenticato: ma l’inizio da fantascienza della Roma di quest’anno coincideva con i suoi rendimenti altrettanto da fantascienza. Per dirne una: anche con Totti in campo è capitato che il rigore per la Roma lo calciasse lui. E questo per dire dell’impatto e della forza che ha avuto questo centrocampista sul campionato italiano. Un rigore al posto di Totti? L’anno scorso l’aveva calciato Osvaldo, l’aveva sbagliato e la sua avventura a Roma era finita praticamente lì. Chiunque altro avrebbe detto: no grazie, sto nel mio, calcia Totti e basta. Strootman no. Nel Mondiale e in un’Olanda che ha beccato il girone più difficile della Coppa, lui sarebbe stato una certezza, una meraviglia senza apparire troppo.

Se invece parliamo di campioni appariscenti allora non parti da Strootman e forse, anzi senza forse, bisogna cominciare dall’ovvio. L’ovvio è Zlatan Ibrahimovic. Al Mondiale non ci va non per scelta, anche perché nessuno sano di mente farebbe una scelta così, ma perché non s’è qualificato. Ha perso contro Cristiano Ronaldo lo spareggio in una delle doppie sfide più belle che la storia recente delle qualificazioni alla coppa del Mondo ricordi (hanno segnato entrambi, ma il portoghese di più, gol bellissimi e fondamentali). Ma il fatto che Ibra non sia in Brasile diventa ancora più surreale se si pensa che quello visto quest’anno è l’Ibrahimovic più forte di sempre. Il migliore, semplicemente. Mai così tanti gol in una stagione e mai così decisivo. Parliamo di uno che decisivo lo è sempre stato: all’Ajax, alla Juventus, all’Inter, al Milan. Ma mai per numeri, per carattere, così come quest’anno al Paris Saint-Germain.

La Francia e Parigi gli hanno regalato la sua definitiva immortalità pallonara. Qualche tempo fa scrissi che ci voleva un campionato di seconda fascia bassa per farlo realizzare completamente. Alla fine del campionato questa convinzione s’è rafforzata, anche se a qualcuno può apparire un controsenso. Giocare nella squadra più forte di un campionato mediocre rappresenta Ibra alla perfezione. E’ la sua identità più vera: uno che vuole accanto a sé giocatori bravi, ma non bravi quanto lui. Cavani è stato sistemato in pochi minuti, gli è stato fatto capire che il giocatore più importante sarebbe stato comunque Zlatan. Il paradosso dei paradossi è che Cavani al Mondiale ci va, Ibra no. Il che porta al centro il tema fondamentale della geografia del pallone: il tuo posto nella storia può essere determinato spesso dal tuo Paese più che dal tuo talento. Perché non è vero quello che una volta disse Peter Beardsley su Maradona: “Nel 1986, se quello lì avesse giocato nel Canada, il Canada avrebbe vinto la coppa del Mondo”. E’ una balla facile da raccontare e smentita dai fatti. Chiedere a Ryan Giggs, per esempio, che un Mondiale non l’ha mai potuto giocare perché il Galles non ci può arrivare. E per restare alle stesse latitudini chiedere a Gareth Bale che oltre a essere stato il giocatore più pagato di sempre quest’anno ha segnato il gol più incredibile dell’anno (quello contro il Barcellona nella finale di Coppa del Re) e ha segnato anche il gol decisivo per la conquista della decima Champions del Real Madrid. Bale, come Giggs, il Mondiale non lo vedrà e non per demeriti suoi.

Allora se bisogna trovare un nome simbolico, uno che davvero mancherà a questo Mondiale è Robert Lewandowski. La Polonia degli ultimi anni è anche una buona squadra, lui è l’attaccante moderno più fico che ci sia. Uno che ha il fisico, uno che ha la testa, uno che ha i piedi. Avrebbe meritato il Mondiale solo per ciò che ha fatto l’anno scorso nella semifinale contro il Real Madrid: c’è quel gol, il terzo personale, che ha cambiato tutto. La palla sotto la suola dal sinistro al destro, prima del tiro, perfetto. Non un gol, un manifesto: sportivo, culturale, politico, generazionale. E’ stato il ritorno del centravanti, nel pallone e nella vita. E’ la fine del cooperativismo a ogni costo, del tutti uguali per forza. E’ il gira-volta della pagina: basta, questa è l’èra di quelli che si prendono la responsabilità, quel giocatore simbolo che sta lì, dentro l’area, perché ha un compito, uno solo: segnare. Il frontman, il leader, la fine di un percorso.

Lewandowski mancherà a questo Mondiale e ci sarebbe potuto essere, se solo fosse nato altrove. Semplice e beffardo. E però tra quelli che non ci vanno in Brasile c’è pure chi è nato e cresciuto in paesi di calcio. Tipo Fernando Llorente. Qualcuno può dire che non se lo meritasse? Ha fatto bene all’inizio del campionato con la Juventus a dire: “Sono un giocatore forte”. Rispondeva così a chi gli chiedesse che cosa si sente di essere in campo. Per chi non l’ha bocciato a prescindere, come ha fatto qualcuno salvo poi ricredersi, Llorente è stato uno dei giocatori migliori della serie A. Facile dire nelle prime giornate: l’attaccante efficace è colui che segna. Quelli, insomma, che si limitano al gol obbligatorio e alla purezza del movimento. Nessuno che in quei giorni dicesse una banale verità: Fernando è un certo tipo di giocatore e va considerato nella categoria della quale fa parte, cioè il centravanti perno, che tiene alta la squadra, gioca di spalle fuori area e di fronte in area, non tecnico, forte, presente, utile. In questa casella, Llorente è tra il meglio che ci sia. E siccome questa casella è fondamentale nel gioco di molte squadre europee, allora Fernando è importante. E’ stato importante. Forte, come dice lui di sé. Andava accettato prima di tutto. Andava capito. Perché quella rigidità nella corsa, quella staticità presunta sono il suo valore aggiunto. E’ quel tipo di attaccante che può funzionare anche se resta a secco. Non deve dribblare, saltare l’avversario e segnare. Deve coprire il pallone, tenere i difensori dietro di sé, avvicinarsi alla porta indietreggiando, con un passo da gambero utile, poi decidere: girarsi e calciare, oppure appoggiare dietro per un compagno. Giocare di sponda è un’arte pallonara troppo spesso sminuita. Però se chiedi a un allenatore se gli piacciono i giocatori che la sanno fare, la sponda, ti dirà di sì. Varia il sistema, gli schemi, l’approccio alla porta avversaria. E’ un’altra soluzione. Llorente è una variabile nuova. Uno che ti permette di attaccare diversamente. La Spagna ha deciso di rinunciarci, per ragioni tattiche si suppone e per preferire altri. Eppure poi a un certo punto anche i numeri hanno raccontato la sua forza: 16 gol in campionato e due nelle coppe europee. Pochi? Maddai, per favore. Alla Juve un giocatore così mancava, così come manca a molte squadre, tanto che il Barcellona pare sia interessato a prenderlo in questi giorni.

Anche Tévez non ci sarà. E questa ovviamente è la cosa più scontata e contemporaneamente la più clamorosa. Si sapeva, per carità. Però fa impressione lo stesso. Un’esclusione che la Gazzetta dello Sport ha spiegato così un mesetto fa: “In attacco, come ci si aspettava, non c’è Carlos Tévez, perché Sabella non ha ceduto alle pressioni di tutti quelli che (tra sondaggi, ‘banderazos’, murales) avrebbero voluto il ritorno in Nazionale del ‘jugador del pueblo’, a cui è stato preferito Franco Di Santo, 4 reti in stagione con il Werder. I tifosi argentini, a ogni modo, potranno contare sul trio stellare Agüero-Higuaín-Messi, con Lavezzi e Palacio a integrare un reparto offensivo da oltre 120 reti solo in questa stagione”. L’esclusione non è mai stata commentata dall’attaccante della Juventus. In compenso, sei mesi fa a spiegare il perché ci pensò Diego Armando Maradona: “Perché Tévez non viene più convocato in Nazionale? Semplice, Carlitos ha litigato sia con Bilardo che con Grondona, è questo il motivo per il quale è stato letteralmente fatto fuori dalla Nazionale argentina”.

Succede, amici. Succede se sei nato in un paese che ha altri campioni, a dimostrazione della stessa teoria di prima: il tuo posto nella storia può essere determinato spesso dal tuo paese più che dal tuo talento. Non bastano i gol se le alternative che hanno al posto tuo fanno comunque tanti gol. E’ una semplice verità che Tévez ha accettato meglio di tutti quelli che si stracciano le vesti per la sua assenza.

La stessa ragione tiene fuori il giocatore più sorprendente del campionato italiano degli ultimi due anni: Borja Valero. Il suo caso, addirittura, andrebbe spiegato, raccontato, analizzato nelle scuole calcio. Perché Borja Valero ha solo sbagliato èra. Capito? Una fregatura. Come nascere nel posto giusto nel momento sbagliato. Hai le mani, la testa, i piedi, il talento per diventare gigantesco e invece no: tutto questo un giorno non sarà tuo. E’ questo quello che è accaduto a Borja: grande in una generazione di gente ancora più grande. Succede, ogni tanto. Accadde a Zico: sarebbe stato il più forte di tutti se solo non fosse stato contemporaneo di Maradona e Platini. Succede anche il contrario, certo. Cantona ha beccato la peggior Francia degli ultimi 35 anni: troppo tardi per quella di Michel e troppo presto per quella di Zidane. Borja ha pescato la miglior Spagna di sempre e dentro quella squadra il miglior centrocampo della storia di una nazione e una nazionale. Xavi, Iniesta, Fábregas, Busquets, Xabi Alonso, David Silva, poi pure Thiago Alcántara. Soffre? Ha smesso. “Non ci penso più”. Ricorda solo che con l’Under 19 era lui a comandare: segnò il gol decisivo nella finale dell’Europeo 2004. Poi la Roja è stata un miraggio. Il calcio no. Perché si può essere fortissimi anche senza poter indossare la maglia di una Nazionale. Borja ha i piedi giusti e il cervello perfetto. Difficile trovare un altro centrocampista così nel campionato italiano. Veloce, tecnico, intelligente, agile, deciso: assist e gol, sudore, fatica, qualità, idee. Era nato mezzapunta, ha cambiato per cercare di entrare nel bussolotto di quel centrocampo dove sembrava impossibile entrare. Ha capito anche che non è ciò che pensava di essere. Non è uno di quelli che ti lasciano senza fiato. Non ha l’eleganza di Pirlo, non ha lo stile di Xavi, non ha il tocco di David Silva. E’ dannatamente e orgogliosamente concreto. Solido come quei giocatori di tennis il cui talento è il mix di più talenti. E’ il Djokovic del pallone: una pagella da nove in tutto, che funziona più e meglio di chi sa fare una cosa da dieci e poi in qualcos’altro scende al sette. Serio, Borja. Così serio che alla fine ha capito che non era colpa sua, che il tentativo di spostarsi, fare l’interno, la mezzala è stato saggio ma insufficiente. Troppo forti gli altri. E di fronte a quelli forti ti accontenti di essere il primo dei non eletti.

Nella Spagna di quest’anno ce ne sono tanti così: c’è Diego López, il portiere che quest’anno ha giocato meglio di Casillas ma non è stato considerato. C’è il giocatore del Napoli Callejón, c’è il leader dell’Atletico Madrid campione di Spagna, Gabi. Ce ne sono altri. I posti sono pochi, la possibilità è poca. Si sceglie e gli allenatori scelgono. Succede anche altrove, dove il talento è inferiore e dove sinceramente le scelte dovrebbero essere più facili. Nessuno si spiega perché uno come Nasri non è stato chiamato nella lista dei 23 della Francia. Ha vinto la Premier League da leader, ha giocato bene, ha classe, ha piedi, ha testa. Fuori, perché esistono anche simpatie e antipatie e vanno tenute in considerazione. E’ la banalità dei rapporti umani. La base di tutto, anche del pallone. Supera le considerazioni tattiche, quelle tecniche, quelle numeriche, quelle statistiche. I big data del calcio si fermano al carattere degli allenatori. Offendersi o recriminare è sbagliato. Soprattutto è inutile.

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