
Pantagruele è nei guai
Alle 15 e 30 si è presentato davanti agli avvocati e ha annunciato sorridendo la propria sofferenza, un accenno di ribellione, ha gridato che qualcuno gli vuol male, che per la ristrutturazione di casa ha pagato tutto lui, e che ha le fatture a dimostrarlo, la voce forse meno squillante del solito… Corpulento, allegro, abile, Giancarlo Galan maneggia la politica e probabilmente anche la vita con scarse precauzioni, non nasconde bisogni e sentimenti, non rinvia, non evita.E’ ancora Giancarlone, il più alto (quasi un metro e novanta) e il più estroverso della sua grande famiglia borghese: un padre medico, partigiano iscritto al Partito d’Azione, e un fratello, Alessandro, notissimo oculista, primario di Oftalmologia all’ospedale Sant’Antonio di Padova; e poi lui che non ha voluto studiare Medicina ma Legge, chissà, forse per una forma di scapigliatura nei confronti dei genitori, severi, persino austeri.
Alle 15 e 30 si è presentato davanti agli avvocati e ha annunciato sorridendo la propria sofferenza, un accenno di ribellione, ha gridato che qualcuno gli vuol male, che per la ristrutturazione di casa ha pagato tutto lui, e che ha le fatture a dimostrarlo, la voce forse meno squillante del solito… Corpulento, allegro, abile, Giancarlo Galan maneggia la politica e probabilmente anche la vita con scarse precauzioni, non nasconde bisogni e sentimenti, non rinvia, non evita. E’ ancora Giancarlone, il più alto (quasi un metro e novanta) e il più estroverso della sua grande famiglia borghese: un padre medico, partigiano iscritto al Partito d’Azione, e un fratello, Alessandro, notissimo oculista, primario di Oftalmologia all’ospedale Sant’Antonio di Padova; e poi lui che non ha voluto studiare Medicina ma Legge, chissà, forse per una forma di scapigliatura nei confronti dei genitori, severi, persino austeri.
Una professoressa al liceo li sconsigliò di iscrivere quel ragazzone goffo all’università, non s’impegna, vuole solo divertirsi, “potrebbe fare l’idraulico”. E invece Galan ha avuto successo, donne, denaro, potere, uno stile di vita lontano dalla tradizione e, dicono, anche dal carattere famigliare. Grande, grosso, i capelli ormai radi, due occhiali spessi a causa della miopia, corpulento e sprezzante, se lo vedi da lontano (Fabrizio Cicchitto, che non lo ha mai amato, lo ha sempre definito con disprezzo un “Gauleiter, perché è arrogante e cattivo”) ma, quando invece si avvicina, Galan è un divertimento: mano sul cuore, calore, simpatia, comprensione, uno stato d’animo impudente e felice.
Si veste con cura da quando si è risposato, ha cambiato moglie e sarto, è mite e garbato, e ha, in genere, un buon rapporto con il mondo e con le cose. Ha un’acuta capacità di giudizio e cita a memoria, spiritoso com’è, Talleyrand e Berlusconi, quasi questi due uomini così lontani fossero invece la stessa persona, come fossero fatti della stessa pasta. E’ capace di ricordare intere scene de “La Figlia di Iorio”, conosce il mondo politico e degli affari come nessun altro: toso di qua e toso di là. Ebbene, questo signore bennato e gradevole, che è stato il potentissimo presidente del Veneto dal 1995 al 2010, per due volte ministro, è accusato d’essere un tangentista: corrotto per anni con somme ingenti di denaro, mazzette da cinquanta, centomila euro che gli venivano consegnate negli hotel veneziani dove si trovava a pranzare, al Monaco, al Ramada, una volta all’uscita di un Consiglio regionale. E tutto intorno a lui danza un teatro di spettri, di sospetti ladri, di inquisiti, uomini di centro, di destra e di sinistra. La Tangentopoli veneta somiglia infatti a un’idrovora azionata per risucchiare tutto, pezzi di vecchia nomenclatura diessina ed esponenti del centrodestra berlusconiano.
Ammette: “So di avere dei nemici, so di avere seminato dei rancori”, ma è un esercizio senza nomi, mentre tutt’intorno a lui è uno scuotere di teste, un sollevarsi di sopracciglia, un moto di stupore, un condensarsi di dubbi, di meraviglia, persino più a sinistra che in quella destra berlusconiana e leghista dove Galan non è mai piaciuto se non agli uomini della prima ora, la vecchia banda: a Gianfranco Micciché, a Marcello Dell’Utri, a Cesare Previti. E infatti Galan governava il grande Veneto, ma contro la Lega di Bossi e di Zaia, e lo faceva corteggiando i diesse e poi il Pd, schiaffeggiando e abbracciando Massimo Cacciari, e poi stringendo un patto strategico con Riccardo Illy e con Lorenzo Dellai, i due superpresidenti di sinistra del Friuli e del Trentino. Nel 2007, legati da una solidarietà non ideologica, da un comune linguaggio settentrional-funzionalista, pragmatico, al culmine delle loro liaison immaginarono un unico Nordest, “non un corridioio ma un soggetto economico a pieno titolo”: la più grande regione industriale e commerciale d’Europa. Qualcosa si fece, molto altro no, in quattro anni Galan realizzò quel serpentone chiamato Passante di Mestre, ma dopo quasi trent’anni il Mose è invece ancora una strana chimera, un mostro mezzo inaugurato mezzo no: una nera pozza dove si disperde il denaro pubblico.
Oggi scuotono la testa, sbigottiti, sia Illy sia Dellai, non riescono a crederci: la procura di Venezia parla d’una mazzetta da un milione d’euro l’anno per Galan, denari per corrompere l’uomo che fu laureato liberale da Giuseppe De Rita, il professore che nella prefazione del libro-intervista “Il Nordest Sono io” (Marsilio, 2008) consegna a Galan una patente che vale molto più del master conseguito alla Bocconi nel 1987. Scrive infatti De Rita, descrivendo Galan: “Una così forte libertà espressiva sarebbe un puro fenomeno caratteriale se non fosse intimamente legata ad un animo liberale e a un convinto primato della cultura della diversità”. E questo libro, attenzione, è tutt’altro che una goffa agiografia. Non c’è soltanto l’illustre e specchiata prefazione di De Rita, ma Galan è intervistato da Paolo Possamai, giornalista del gruppo Espresso, oggi direttore del Piccolo di Trieste. E in queste centoquarantatré pagine Galan teorizza la costruzione di un nuovo partito, trasversale, territoriale, più di sinistra riformista che di destra conservatrice, sul modello della Südtiroler Volkspartei, “con Massimo Cacciari, Riccardo Illy, Paolo Costa e Tiziano Treu”. Un partito, un modello, che sapesse interpretare “il pezzo d’Italia più dinamico e ricco, inquieto e ribelle”. E insomma, velleità, forse, ma in quel momento più che credibili. E per anni Galan è sempre in mezzo, sempre più trasversale, come tutti gli uomini che portano addosso una vicenda grandiosa e cupa.
A Padova, la sua città, raccontano di una famigliona borghese, ricca, e di un ragazzotto grande e grosso, estroverso, che quando mangiava si impataccava la cravatta o la camicia. Semplice e arruffone. Ma volitivo. Parlano poi di un enorme ventenne, un pasticcione liberale che aveva più sensi che intelletto, un ottimista ambizioso che aveva una concezione digestiva dell’uguaglianza, anche quando Marcello Dell’Utri lo assunse a Publitalia, a Milano, negli anni Ottanta: bere e mangiare per tutti. Generoso, dunque, con moglie e casa sgargianti, anche se la favoleggiata villa di Lozzo, le cui ristrutturazioni secondo la procura sono state pagate da altri, come una tangente, non è la fastosa residenza di un doge, di un re, com’è stata invece descritta. Galan vive lì, in questa casona del ’700, arredata dalla signora Sandra, la seconda moglie, con gusto un po’ kitsch (colori verde bottiglia, rosso fosforescente, fucsia). Sposata nel 2009, biondissima amante dei colori forti, Sandra gli ha regalato una bambina, Margherita, e un figlio di primo letto, adolescente, che Galan ha accolto come fosse suo. Da sempre ama la caccia, la grappa, la pesca del tonno d’altura, la buona tavola, si diletta anche a cucinare il fagiano e le beccacce, cura le rose del giardino di casa, in bermuda e calzini bianchi, come un tirolese.
E quarant’anni dopo Giancarlo Galan è rimasto pantagruelico com’era da ragazzo, va ancora a sparare con la doppietta nelle riserve del Polesine, e ha cercato di trasformarsi in qualcosa di più d’un semplice candidato berlusconiano alla presidenza della regione più industriosa d’Italia. Aveva un progetto: “Il nordest sono io”. Ma dopo quindici anni di potere e di fasti ha dovuto mollare il suo trono veneto, chi dice “tradito” dal Cavaliere, chi “accoltellato” dalla Lega, per diventare brevemente ministro, prima dell’Agricoltura e poi dei Beni culturali, sempre seduto sulle puntine da disegno e non più sugli allori, per poi scivolare verso l’oblio, quasi verso un ripiegarsi organico: un posto da senatore come tanti altri, a Roma, e infine, oggi, le più lugubri luci della ribalta: un onorevole inquisito. “Ma io non ci credo, non ci credo, non ci credo. Non ci posso credere anche se la procura di Venezia è una procura seria, serissima. Ma come faccio a crederci?”, dice Franco Miracco, che oggi è assessore alla Cultura del comune di Trieste, una vita nel Pci, poi al Manifesto, poi con Luigi Zanda al consorzio per la realizzazione del Mose, e infine, dal 2001 fino al 2010, portavoce e ombra di Galan alla regione Veneto. Galan e Miracco. Li chiamavano così: Galacco.
E ancora oggi i sopravvissuti del Partito liberale ricordano quel ragazzino alto alto che nel Pli stava sempre accanto ad Alfredo Biondi, e che nel 1986 abbandonò la politica, disgustato dopo la contestatissima vittoria di Renato Altissimo, “si comprarono i voti. E io non ho mai sopportato corrotti e corruttori”. Dopo quell’esperienza dicono che non abbia nemmeno più letto i giornali, la leggenda, iperbolica, narra di un disgusto lungo dieci anni. “Non sopporto le malversazioni, i corrotti, le ruberie”, ha sempre detto. E infatti, come ha raccontato lui stesso, anche negli anni di Tangentopoli Galan simpatizzava per i magistrati, “vissuti come coloro che ci liberavano da una melma maleodorante. Il mio giudizio sull’azione della magistratura è poi radicalmente cambiato, ma da principio stavo in modo convinto dalla parte di Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Antonio Di Pietro”. Così, da governatore del Veneto, nel suo studio presidenziale, rosso in volto, batteva i pugni sul tavolo, spesso ce l’aveva con i leghisti, di cui sospettava imbrogli acrobatici e ruberie, “gentaglia, solo gentaglia”, diceva con furia, individui senza scrupoli e senz’altra fede se non nel danè e nella truffa. E la sua espressione preferita: “Sono dei poveracci. Dei ladri. Con i ladri mai”. E c’è dunque un conflitto in questa vicenda che adesso deflagra con la richiesta d’arresto, con l’accusa di corruzione, con quei quattordici faldoni della procura ancora secretati e che soltanto lunedì saranno nella disponibilità della difesa. Quel conflitto inventato da Pirandello, dalla cui bocca uscivano, scandite una dopo l’altra, le doppie verità. Ma lì eravamo nella gioiosa commedia, qui siamo nella tragedia giudiziaria.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
