La voglia europea di gas e il gioco energetico del Caucaso

Alberto Brambilla

Con l’intenzione di abbattere i costi per gli approvvigionamenti energetici, i governi europei spingono per aprire i mercati nazionali del gas naturale, sia con l’esplorazione dei nuovi “pozzi” dello shale gas sia con accordi commerciali siglati a livello bilaterale anziché comunitario. Lo dimostrano due casi recenti, quello inglese, con il governo che intende dare nuovo impulso all’estrazione del gas dalle rocce profonde, e quello italiano, con il rafforzamento dell’intesa tra Italia e Azerbaigian per l’avanzamento del gasdotto Tap (Trans-Adriatic Pipeline) attraverso la visita di domenica del presidente del Consiglio, Enrico Letta, nella capitale Baku, l’unica metropoli azerbaigiana, situata sulle rive del mar Caspio.

    Con l’intenzione di abbattere i costi per gli approvvigionamenti energetici, i governi europei spingono per aprire i mercati nazionali del gas naturale, sia con l’esplorazione dei nuovi “pozzi” dello shale gas sia con accordi commerciali siglati a livello bilaterale anziché comunitario. Lo dimostrano due casi recenti, quello inglese, con il governo che intende dare nuovo impulso all’estrazione del gas dalle rocce profonde, e quello italiano, con il rafforzamento dell’intesa tra Italia e Azerbaigian per l’avanzamento del gasdotto Tap (Trans-Adriatic Pipeline) attraverso la visita di domenica del presidente del Consiglio, Enrico Letta, nella capitale Baku, l’unica metropoli azerbaigiana, situata sulle rive del mar Caspio. L’obiettivo dichiarato dai governi, inglese e italiano, è quello di ridurre il peso della bolletta energetica: comprensibile che, dopo due anni di politiche d’austerità, questo sia un modo per sgravare i cittadini dal fardello delle spese quotidiane. Ieri il premier inglese, David Cameron, ha dato una “inequivocabile spinta” (scriveva Reuters) all’esplorazione di nuovi giacimenti di shale gas: “Se non appoggiamo questa tecnologia – ha scritto Cameron sul Daily Telegraph di ieri – perderemo una grande opportunità per aiutare le famiglie con le loro bollette e per rendere il nostro paese più competitivo”. Così facendo Cameron ha indirettamente sfidato le lobby ambientaliste, contrarie all’estrazione del gas tramite la frantumazione delle rocce di scisto per mezzo di getti d’acqua ad alta pressione e l’uso di sostanze chimiche (in gergo “fracking”). Cameron vorrebbe aumentare le estrazioni sia nel nord sia nel sud della Gran Bretagna. I critici sostengono sia un processo dannoso per l’ambiente, causa d’inquinamento delle falde acquifere e di micro sismi. Queste erano (e in parte lo sono ancora) le stesse preoccupazioni degli ambientalisti americani, trovatisi però di fronte alla sorpresa di una bolletta più leggera e alla prospettiva dell’indipendenza energetica del loro paese grazie appunto al recente boom americano dello shale gas e dello shale oil (l’estrazione del petrolio con metodi analoghi).

    Il governo italiano dovrà affrontare, nel suo piccolo, la montante sindrome “nimby” (not in my backyard; non nel mio giardino) dei No Tap pugliesi, movimento contrario al gasdotto che dall’Azerbaigian approderà a San Foca, nel leccese. Dopo i No Tav (contro l’alta velocità in Piemonte) e i No Muos (contro le antenne satellitari dei militari americani in Sicilia), e altri, quello dei No Tap è un altro movimento di cittadini mossi da “un’opposizione preconcetta a opere strategiche per lo sviluppo”, scriveva ieri in un editoriale il sito Formiche.net. Le istanze dei movimentisti hanno scarse chance di trovare appoggio a livello politico-istituzionale. Analisti e osservatori sono infatti concordi nel dire che il gasdotto Tap è un buon affare per l’Italia.

    La rotta del gas caucasico verso l’Italia
    Domenica Enrico Letta – il primo premier italiano in visita a Baku – di fronte al presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, un oligarca arrivato al potere per via dinastica (sebbene con elezioni formalmente democratiche), ha detto che l’infrastruttura che parte dal Caspio, attraversa Turchia, Grecia e Albania, e che entro il 2019 porterà 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno in Europa, produrrà “un beneficio sulle bollette degli italiani”. Un auspicio e in parte una certezza da sostenere con politiche fiscali adeguate, dice Matteo Verda, research fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (Ispi). “Il 60 per cento del costo della bolletta energetica non deriva dalla materia prima, ma dai costi di sistema e soprattutto da Iva e accise. Qui bisogna agire per ridurre davvero i costi per i cittadini. Non si possono però negare gli effetti positivi del Tap: porta nuovo gas da un paese che non è un attuale fornitore dell’Italia; ciò non solo aumenta la capacità d’importazione ma diversifica l’origine della materia prima e questo rafforza la nostra sicurezza energetica. Certo, non è una quantità tale da rivoluzionare il mercato, ma può comunque avere un impatto positivo sui prezzi”, dice Verda. La spinta finale al Tap è arrivata dai partecipanti al consorzio Shah Deniz che estraggono il gas nel Caspio (Bp, Total, Statoil e l’azerbaigiana Socar), con un investimento più basso e con le tariffe di transito del 15 per cento più contenute rispetto al progetto europeo del gasdotto Nabucco, ormai arenato. “All’Italia il Tap non è costato nulla – ricorda Verda, autore per Ispi dei Focus sicurezza energetica per il Parlamento italiano – Per una volta qualcuno ha investito su questo paese, quando per giunta la politica si era disinteressata alla questione delle infrastrutture dal Caspio. Sebbene il Tap sia incluso come obiettivo strategico nella Strategia energetica nazionale, l’impegno attivo del governo su questo fronte è stato tardivo”. Inoltre, aggiunge l’analista dell’Ispi, siccome l’Italia sarà la porta d’ingresso del gas azerbaigiano in Europa, il paese sperimenterà di conseguenza un afflusso inedito e consistente di metano, poi diretto su altri mercati: è un affare per la società Snam Rete Gas, di proprietà della Cassa depositi e prestiti. “Snam farà cassa con il transito del gas naturale che arriva in Puglia ed esce a nord, dal Tarvisio o al Passo Gries. Significa che dal sud Italia alle Alpi il transito verrà pagato a Snam in proporzione ai molti chilometri percorsi. Nel contesto di una rete energetica europea sempre più integrata, di cui l’Italia ora farà certamente parte”.
    Secondo Nicola Squillace, avvocato dello studio legale Libonati-Jaeger che cura l’ingresso di aziende nel Caucaso, le conseguenze sono ancora più ampie: “Un domani la produzione di Shah Deniz potrà aumentare perché Azerbaigian e Turkmenistan hanno già fimato un accordo, bloccato per ora da un contenzioso internazionale, che, se risolto, aprirà una nuova via d’approvvigionamento”.

    L’abbraccio di Baku su Saras?
    L’approccio azerbaigiano è lento, ma più di un osservatore lo considera inesorabile. Le indiscrezioni su un interesse dell’Azerbaigian per le raffinerie della Saras della famiglia Moratti in Sardegna si rincorrono da tre anni. Valery Golovushkin, capo della Socar Trading, compagnia d’investimento con base a Ginevra, annunciò l’interesse per Saras nel 2010 con una precisa descrizione dell’obiettivo finale, descrizione coincidente con lo stabilimento di Sarroch. Fu un nulla di fatto. Nell’aprile 2012, il quotidiano Repubblica rilanciò le indiscrezioni sulle mire di Baku verso la società dei Moratti dai bilanci in rosso. Altro nulla di fatto. E’ il 15 aprile 2013 che Saras trova l’accordo, ma con la russa Rosneft, colosso degli idrocarburi, che compra il 13 per cento delle quote e preventiva un’opa che la porterebbe al 21 per cento di Saras. Poco dopo, il 5 luglio, Rosneft annuncia un accordo di cooperazione di lungo termine nel settore petrolifero con Socar, la compagnia azera che cura la politica d’investimenti industriali negli idrocarburi (Sofaz gestisce invece gli investimenti finanziari). Secondo alcuni osservatori, è stato questo patto russo-azero a segnare il destino di Saras. I giochi non sono fatti, anzi. I rumors continuano, manca la prova del nove ma di fatto l’Azerbaigian ha una strategia chiara: investire in tutta la filiera degli idrocarburi, dalla produzione alla distribuzione. Ad esempio possiedono la rete gas greca (ex Desfa), la rete di distributori di benzina in Svizzera (Socar sostituirà il marchio Esso), lo stesso in Ucraina e Georgia. Oltre a grossi investimenti in Turchia. In questa strategia, l’Italia è un po’ l’anello mancante.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.