Negozi ed e-commerce si stanno alleando, ma l'Italia è in ritardo

Michele Boroni

Magari in Italia non ce ne siamo accorti, così presi ad arginare la reale e fin troppo percepita “crisi dei consumi”, ma nel resto del mondo occidentale è in corso da qualche anno un importante cambio di scenario dell’intero settore retail: uno spostamento epocale delle vendite dai negozi fisici verso l’e-commerce, che ha visto la chiusura di gloriose catene come Virgin Megastore e Tower Records per i dischi o l’americana Borders per i libri e con Barnes & Noble e Fnac che hanno ridimensionato i propri store, per non parlare delle migliaia di negozi chiusi negli ultimi anni.

    Magari in Italia non ce ne siamo accorti, così presi ad arginare la reale e fin troppo percepita “crisi dei consumi”, ma nel resto del mondo occidentale è in corso da qualche anno un importante cambio di scenario dell’intero settore retail: uno spostamento epocale delle vendite dai negozi fisici verso l’e-commerce, che ha visto la chiusura di gloriose catene come Virgin Megastore e Tower Records per i dischi o l’americana Borders per i libri e con Barnes & Noble e Fnac che hanno ridimensionato i propri store, per non parlare delle migliaia di negozi chiusi negli ultimi anni. Solo in Inghilterra nei mesi di giugno e luglio, cinque catene di vendita al dettaglio con un fatturato pari a 600 milioni di sterline (700 milioni in euro) sono fallite.

    Da alcuni anni per gli osservatori economici i negozi fisici sono diventati per il commercio come le macchine da scrivere per la scrittura, una vecchia tecnologia condannata all’estinzione da un successore più efficace ed efficiente. Per tutti quei consumatori che sanno quello che vogliono e sono disposti ad aspettare, l’opzione dell’acquisto online diventa l’unica soluzione possibile, sicuramente la più economica e comoda. Per la generazione nata e cresciuta con Internet non ha più molto senso il concetto di “andar a fare shopping” ma, in qualche modo, grazie alle continue e miratissime sollecitazioni da parte degli store online come Amazon, è lo “shopping che va verso loro”. Secondo gli ultimi studi economici, in Germania, Francia e Gran Bretagna, il novanta per cento della (modesta) crescita delle vendite da qui al 2016 sarà sviluppata dall’online (dati Axa), ma in realtà qualcosa sta già cambiando.

    L’Economist della scorsa settimana dedicava un lungo articolo all’argomento titolando “The emporium strikes back”, in cui si cerca di spiegare la tendenza del ritorno al negozio fisico, seppur potenziato e integrato con l’online. Il fatto è che a parte il pioniere Amazon, tutti gli altri store solo online pur macinando molte vendite, hanno margini di guadagno bassissimi e grossi grattacapi: sull’abbigliamento gli acquirenti restituiscono oltre un quarto dei capi che acquistano (le norme dell’e-commerce sul diritto di recesso entro quindici giorni sono ancora molto a favore dell’acquirente, tanto che molti ne approfittano, provando e indossando i capi comprati e poi restituiti), e la vendita dei generi alimentari online è laboriosa, con  molto prodotti a basso valore che devono essere conservati a diverse temperature e consegnati rapidamente. La parola chiave per i brand è “multicanalità”, perché solo con i negozi offline le aziende non riescono a sopravvivere (costi di affitto e personale insostenibili): quindi con l’e-commerce si fa il fatturato, mentre i negozi permettono ancora di realizzare alti margini.

    Da qualche anno tra le persone è piuttosto diffusa la pratica dello showrooming specie nell’abbigliamento, ovvero usare i negozi per provarsi i vestiti e poi acquistarli online a prezzo ribassato: tutto questo ormai è inevitabile, per questo è necessaria una stretta connessione e collaborazione tra negozio e sito di e-commerce dello stesso brand. Lo hanno capito i tipi di Tesco, grossa catena di ipermercati inglesi che hanno trascorso un decennio a portare i negozi dentro Internet, e che oggi invece provano a “portare Internet dentro i negozi”. Come? Cambiando la disposizione dei prodotti, organizzata non secondo le categorie o classi di prodotto, ma per modalità d’uso: per esempio negli alimentari, attraverso alcune ricette che cambiano periodicamente e che puoi trovare online, oppure con un sistema che riconosce l’acquirente all’entrata del negozio attraverso lo smartphone per proporgli offerte e promozioni personalizzate, stimolando gli acquisti dei prodotti accessori e creando nuove esperienze all’interno del punto vendita che coinvolgano tutti e quattro i sensi (vedi gli esempi degli Apple Store).

    In Italia siamo ancora lontani da questi scenari. Online e offline si integrano poco, e quando si pone la questione scatta il muro contro muro. In giro si dice che i problemi siano altri. Oggi in Italia le vendite online pesano intorno al tre per cento, mentre in Uk su alcune classi di prodotto (hi-tech e intrattenimento) è già oltre il trenta per cento. Meglio quindi osservare da vicino come si muovono gli altri paesi.