Guantánamo, la tortura e noi

Adriano Sofri


In calce alla lettera del detenuto yemenita a Guantánamo pubblicata lo scorso 14 aprile dal New York Times si legge qualche centinaio di commenti. Uno dice: “Io concordo col senatore McCain, che fu lui stesso vittima di tortura. Quando un altro senatore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccuparci di questi terroristi?’, McCain replicò: ‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi siamo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’America, e gli Stati Uniti d’America non torturano la gente”.

Ferraresi Il fronte liberal intravede il bluff dietro l'infatuazione civile di Obama

    In calce alla lettera del detenuto yemenita a Guantánamo pubblicata lo scorso 14 aprile dal New York Times si legge qualche centinaio di commenti. Uno dice: “Io concordo col senatore McCain, che fu lui stesso vittima di tortura. Quando un altro senatore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccuparci di questi terroristi?’, McCain replicò: ‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi siamo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’America, e gli Stati Uniti d’America non torturano la gente”.

    Nella lettera, Samir Naji al Hasan Moqbel, 35 anni, descrive minutamente il tormento dell’alimentazione forzata attraverso il sondino nasogastrico. (Ne ha scritto qui Daniele Raineri lo scorso 17 aprile). “Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni, non ho ricevuto alcuna imputazione, non ho avuto alcun processo… Sostennero che fossi una ‘guardia’ di Osama bin Laden, una cosa insensata, mi sembrava uscita dai film americani che mi piaceva guardare. Nemmeno loro sembrano crederci più… Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi legano alla sedia nella mia cella due volte al giorno. Non so mai quando arriveranno, a volte vengono durante la notte... Il 15 marzo ero malato nell’ospedale della prigione e mi sono rifiutato di mangiare. Una squadra della Extreme Reaction Force /poi ribattezzata eufemisticamente Forcible Cell Extraction: estrazione energica…/ ha fatto irruzione. Mi hanno legato mani e piedi al letto e inserito a forza una flebo nella mano. Ho passato 26 ore in questo stato, legato al letto. Non sono potuto neanche andare in bagno. Mi hanno messo un catetere, un’azione dolorosa, degradante e non necessaria. Non mi è stato permesso neanche di pregare… Durante una nutrizione forzata l’infermiera ha spinto sbrigativamente il tubo in profondità dentro il mio stomaco. Ho pregato di sospendere, si è rifiutata. Stavano finendo, quando un po’ di quel ‘cibo’ si rovesciò sul mio abito. Chiesi di cambiarlo, ma la guardia mi negò questo estremo appiglio di dignità”.

    La cosa di cui si sta parlando è la nutrizione forzata. (Quella, mutatis mutandis, cui una legge di Stato avrebbe voluto assoggettare anche tutti i cittadini liberi del nostro paese).

    Avrete letto i racconti sui viaggi nei vagoni piombati, sull’umiliazione terribile dei bisogni corporali. Parlai con molti vecchi ceceni che avevano subito la deportazione staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non sono cose che si possano dire, rispondevano. Abbassavano la testa e sussurravano che molte persone si facevano morire sui treni per la vergogna.

    Dice una mia amica: “Ho letto che il New York Times ha pagato l’articolo al detenuto yemenita (la tariffa standard: 150 dollari) e che quei soldi saranno spediti alla sua famiglia nello Yemen. Confesso che ho pensato, sentendomi poi molto in colpa: chissà cosa ne sarà di quei soldi, ci compreranno il cibo per i bimbi o ci costruiranno una bomba come quella che è scoppiata a Boston, che costa 100 dollari?”.

    Già. Il dilemma breve della mia amica serve a ricordarsi, oltre che dei principii, della differenza fra prevenzione e repressione. Coi detenuti senza imputazioni di Guantánamo, supposti pericolosi e resi pericolosi, la differenza è bruciata. La repressione vuol essere preventiva. Ma il cibo per i bimbi non è, a chi pensi così, una vera alternativa: nutrite i bambini a Gaza o in Libano o in Pakistan, e forse qualcuno di loro, senza nemmeno aspettare d’esser cresciuto abbastanza, si metterà addosso una cintura esplosiva e si farà scoppiare in mezzo a una folla di “nemici”. Ma non possiamo affamare preventivamente mezzo mondo – e più. E’ già affamato abbastanza di suo. Non possiamo affamarne nemmeno uno solo, abbastanza da rimandarlo al Creatore.

    Intanto, però, ricordiamoci del mondo in cui viviamo ordinariamente, del nostro angolo di pianeta. Nel cantone di Zurigo, il 16 aprile, un carcerato comune, cittadino svizzero di 32 anni, condannato nel 2009 per tentato omicidio, è morto nell’ospedale in cui era stato trasferito dopo uno sciopero della fame iniziato nello scorso gennaio. Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la sua volontà è stata riconosciuta legittima e rispettata.

    Il 30 aprile, negli Stati Uniti, mentre il presidente Obama tornava a dichiarare il proprio desiderio di chiudere Guantánamo, il presidente dell’American Medical Association protestava contro la nutrizione forzata: “Ogni paziente ha diritto di rifiutarla anche se ne dipenda la sua vita”.

    Il 21 aprile è stato l’Independent a pubblicare il testo di un altro detenuto di Guantánamo, Shaker Ameer, saudita, 45 anni. Anche lui è lì da undici anni, è stato prosciolto da ogni accusa nel 2007. Scrive fra l’altro: “La Grande menzogna orwelliana è l’idea che tenere 166 prigionieri a Cuba serva a tenere l’America al sicuro dall’estremismo… Su 779 detenuti dal 2001, 613 sono stati rimandati a casa, e gli Stati Uniti hanno prosciolto 86 dei prigionieri che sono ancora buttati qui dentro. Complessivamente, più del 90 per cento del totale, che gli stessi americani ammettono di aver detenuto calunniosamente”.

    Perché Obama si è rassegnato a una sconfitta come la mancata chiusura di Guantánamo? Ha forse temuto l’impopolarità, o ha ceduto alle pressioni degli specialisti dell’antiterrorismo – anche a un Presidente americano si può dire: Ragazzo, lasciaci lavorare. C’è una spiegazione più forte: la paura che qualcuno dei prigionieri, liberato, possa compiere attentati cruenti contro cittadini americani. (Una specifica moratoria alla riconsegna di detenuti yemeniti è stata decisa da Obama). Una simile eventualità gli costerebbe carissima. Si può anche considerare un versante umano, non strumentale, della decisione. Se per suo ordine venissero liberati prigionieri, e divenissero autori di attentati contro cittadini americani (o del mondo), gliene cadrebbe addosso una responsabilità grave da portare. Suggerisco di confrontare questo dilemma con la routine dei nostri magistrati di sorveglianza, che (con eccezioni anche rilevanti) sono spaventosamente restii ad applicare le leggi che li autorizzano, e le circolari ministeriali che li sollecitano, a concedere ai detenuti misure come i permessi, il lavoro esterno, la detenzione a domicilio. Le statistiche mostrano inequivocabilmente come queste misure riducano in proporzione assai maggiore le recidive. Ma la burocrazia dei magistrati di sorveglianza, adoratrice della pigrizia e però vanitosa, è soprattutto attenta a sventare la cattiva stampa. Un detenuto in semilibertà che commetta un delitto capace di suscitare indignazione e raccapriccio costa caro. Anche nel nostro caso, il giudice, o la giudice, dai quali dipende la libertà piena o relativa dei detenuti, possono essere frenati dalla preoccupazione sincera per il rischio di azioni gravi di cui porterebbero la responsabilità e il rimorso, anche se le statistiche dichiarino irrilevanti gli episodi di trasgressione. Non c’è paragone fra il potere, e la responsabilità, del presidente degli Stati Uniti e dei nostri magistrati di sorveglianza: tuttavia il meccanismo psicologico è simile. C’è un’altra, essenziale differenza. Che i nostri magistrati hanno a che fare, almeno formalmente, con detenuti di cui è stato accertato un reato. Obama decide di persone detenute senza imputazioni né processo regolare, e in alcuni casi di accertata non colpevolezza, benché se ne dichiari una pericolosità. Nel caso di Guantánamo, la durata e le condizioni di detenzione sono così brutali che basterebbero da sole a fare di chi le subisce, fosse anche la più innocente delle persone, un pericoloso vendicatore. Si può dire che questo è un caso esemplare di una violenza che si vuole legale ed eccita una violenza opposta, al punto di vietare a se stessa ogni ritirata. Un sequestro di persona che impedisce la liberazione del sequestrato, anche quando sia diventato un ingombro, perché la sua libertà è una minaccia.

    E’ un circolo vizioso, dal quale si potrebbe uscire solo se le pressioni di opinione per la chiusura di Guantánamo diventassero più forti delle pressioni dei poteri per tenerla aperta. Ipotesi remota.

    Ma ecco che la paradossale casistica antiterrorista offre un’altra spettacolare contraddizione. L’amministrazione di Guantánamo tiene forzatamente in vita persone che considera nemiche, impedisce violentemente loro di morire. Alla rovescia che nella pena di morte, li condanna alla pena di vita, per così dire. Morti, la danneggerebbero più che da vivi. All’origine di questa ondata di scioperi della fame – quasi cento – sta un ennesimo sequestro di Corani, e forse la morte di un altro detenuto digiunatore, yemenita anche lui, il 6 febbraio.

    Io conosco una galera, è ripugnante, feroce, normale. Il mio solo vantaggio è che sono più di un altro spinto a immaginare come possa essere Guantánamo. “ Siamo in tanti a digiunare ora, che non ci sono abbastanza operatori dello staff medico qualificati per eseguire le nutrizioni forzate; niente avviene a intervalli regolari. Alimentano le persone in continuazione per tenergli dietro”. Poi leggiamo che a Guantánamo, essendo i digiunatori a oltranza arrivati al numero di 100 su 166 (secondo uno dei difensori, sono addirittura 136), sono stati fatti affluire 42 nuovi medici e infermieri per far fronte all’emergenza. Io chiudo gli occhi, e provo a vedere 92 celle con 92 corpi legati mani e piedi ai loro giacigli o alle loro sedie, e cinquanta medici e infermieri che corrono dall’uno all’altro a spingere a forza il sondino nei 92 nasi e a infilare l’ago nelle 92 mani, una catena di montaggio della sopravvivenza e di smontaggio della vita e dell’umanità. Non so se sia mai esistito qualcosa del genere. Di peggiore sì, di più brutale ancora, di più malvagio, di più. Ma una cosa così, no.

    E adesso completiamo l’impressione sulla contraddizione dei carcerieri che tengono forzatamente in vita i loro nemici giurati, se non altro perché li hanno catturati quando non era ancora arrivato il tempo dei droni, della eliminazione anonima e da lontano, senza l’odore dei corpi. I combattenti “kamikaze” avevano inventato su larga scala, a leve ininterrotte, l’arma della propria morte. Come si può intimidire e reprimere chi non ha paura di morire, e anzi vi aspira? E’ intervenuto qui un contrappasso al dannato culto americano per la pena di morte. Li si fa vivere a forza. No, non vivere, sopravvivere. L’alternativa di quei prigionieri senza processo non è fra la vita e la morte: è fra la morte e la sopravvivenza non voluta. Il suicidio è vietato loro, anche quel più disperato e tenace suicidio che consiste nel lasciarsi morire. Chi ritenga di avere un’obiezione insuperabile al diritto delle persone a suicidarsi, il diritto riconosciuto nel cantone di Zurigo al detenuto morto di inedia, ha qui un caso concreto col quale misurare la propria intransigenza. A Guantánamo si tengono persone, a tempo illimitato, in una condizione tale da far loro preferire la morte, e proibendo loro di morire.

    Postilla.
    Quello che succede nell’estremo infernale di Guantánamo, succede, più vicino e mortificato, anche in una comune galera nostra. Che si trattino i detenuti in modo tale da indurli a desiderare il suicidio – e infatti si suicidano. Dopo si protesta che bisognava impedirlo con una vigilanza più occhiuta. Una vigilanza occhiuta ed efficace, che impedisca a chi vuole suicidarsi di farlo, è impossibile: e se fosse possibile – cella nuda, detenuto nudo, pareti imbottite, occhio del sorvegliante o della telecamera sempre acceso – toglierebbe al sorvegliato qualunque desiderio che non fosse quello di ammazzarsi, o di essere ammazzato. Alla prima distrazione.

    Non penso che i nemici non esistano. Il Vecchio Testamento è tutto una storia di nemici. Quanto al Nuovo, dice che bisogna amarli, non dice che non esistono. Ci si può arrovellare senza fine attorno a questa aporia. L’altra guancia è una meravigliosa metafora, ma non riesce ad avere ragione della realtà: non per me, almeno. Non per esempio quando la prima guancia e la seconda non sono le tue, ma quelle di un’altra o un altro, e quegli altri ti sono affidati, o finiscono feriti sulla tua strada. Mi dico che un criterio – uno dei tanti, uno particolare, non universale, non risolutivo – è che non dovrai mai essere così duro col tuo nemico che la vergogna e la compassione suscitate dal tuo modo di trattarlo eccedano e quasi cancellino le sue malefatte, per enormi che siano. (A volte, quel trattamento è inflitto a un nemico senza malefatte – ulteriore incidente). Questo succede con i prigionieri di Guantánamo. E non invocherò un calcolo economico: Guantánamo che costerà, è già costata, agli Stati Uniti – e non solo a loro, “a noi” – più di una battaglia perduta, eccetera. Piuttosto la condizione umana, che non è, a differenza dall’economia, relativa.

    A Guantánamo sono detenuti all’infinito, senza il diritto a un processo giusto, 166 uomini. Stanno fuori dalla geografia degli Stati e del diritto, su un brandello di Cuba che è extraterritoriale e extralegale, un altro pianeta. Ma sono umani.

    In quella condizione estrema, a mani nude e corpi esausti, quei prigionieri si sono ribellati lo scorso 14 aprile contro un nuovo trasferimento da un dormitorio comune a celle separate. La ribellione è stata sedata a colpi di “proiettili non letali”.

    Mi sono arrovellato attorno alla tortura da quando ero ragazzo. Nella educazione dei ragazzi della mia generazione teneva una parte rilevante, difficile da immaginare oggi, l’aspettativa di una prova che misurasse il coraggio fisico, la lealtà, la fedeltà all’ideale e alla propria comunità. Almeno nel mio caso, prima che alla Resistenza e alla sinistra, quell’educazione era improntata al Risorgimento e all’irredentismo, e a modelli di abnegazione dal segno politico indeterminato: i ragazzi dei racconti mensili del libro “Cuore” (ancora) o i ragazzi della via Pal, per esempio. Si sarebbe stati coraggiosi di fronte al nemico? Si sarebbe stati dignitosi e fieri nelle mani del nemico? Si sarebbe avuta la forza di resistere, e di non tradire i propri compagni e la propria fede? Riassumo così il nocciolo di un’educazione maschile del Dopoguerra, che poteva diventare una tensione intima dell’autoformazione personale. Su quell’idealismo generico e però sentito come un destino si innestavano poi le conoscenze contemporanee e le prime esperienze civili. Io avevo 16 anni quando uscì per Einaudi “La tortura” di Alleg. In quell’educazione – nel mio caso, almeno, ma non credo che fosse raro – prevaleva una dimensione “militante”, che avrebbe assunto forme diverse e via via più definite, ma serbando quel fondo, frutto di una guerra calda appena conclusa, di una guerra fredda virulenta, e di molte guerre locali scandalose in corso, coloniali, civili, partigiane.

    Era la premessa per un piccolo racconto personale: ho fatto un’esperienza, benché eccentrica, di tortura. Ho agonizzato a notte fonda in una cella di carcere, dopo che mi si era spezzato l’esofago. La mia cella era un cubicolo di due metri e mezzo per uno e mezzo, con un cesso alla turca separato dal cuscino della branda da un muricciolo di 30 centimetri. Su quel cesso sono restato a giacere, svenuto e poi incapace di muovermi, nel vomito, nel sangue, nelle feci e nell’urina. Assieme al dolore, mi batteva nella mente la frase: “Inter faeces et urinam nascimur”, e il suo complemento, inter faeces et urinam moriamo. Trovai la forza di battere alla parete, i miei vicini chiamarono al soccorso, fui trasportato all’ospedale. Ebbi pochi brevi momenti di lucidità prima d’essere operato d’urgenza e posto in coma indotto, e ci restai per molti giorni. Tre giorni dopo l’intervento, fui tracheostomizzato. Clinicamente, ero del tutto privo di conoscenza. Tuttavia, man mano che una specie di conoscenza distorta affiorava – non potetti parlare per un mese, e le mie mani avevano disimparato a scrivere – l’effetto degli anestetici possenti che avevo ricevuto, specialmente il curaro, credo, avevano indotto in me una spaventosa paranoia. Mi trovavo nel luogo di un sequestro, nelle mani di torturatori segreti. Essi non sapevano che mi accorgessi della loro presenza e delle loro manovre. Più tardi avrei scherzato con loro di quel terribile delirio. Il capo della mia rianimazione, una giovane persona meravigliosa con una gran barba nera, era per me Verchovenskij. Lo scopo di quella banda era di torturarmi, umiliarmi e costringermi a tradire me stesso. In un sotterraneo adiacente alla mia camera di tortura erano sepolti vivi i miei compagni di carcere, obbligati a stare ammassati nei loro escrementi. Per solidarietà con loro, io dovevo riuscire a rifiutarmi di defecare e urinare, come si pretendeva invece da me per umiliarmi. Sentivo che se avessi saputo resistere, sarebbero tornati a uccidermi. Arrivai a credere che i miei famigliari fossero, perché ingannati o perché corrotti, complici della persecuzione. Muto com’ero, ero certo di raccontare loro tutti i dettagli della congiura contro me e i miei compagni, e non potevo rassegnarmi alla loro inerzia. C’era un infermiere anziano che veniva regolarmente a malmenarmi, e chiedevo a mio figlio di comprare dei gamberoni per corromperlo e salvarmi dalle sue brutalità. (In carcere i gamberoni erano la posta prediletta delle partite di calcio o di carte: un giorno alla settimana si potevano ordinare alla spesa). Quel delirio era così vivido – mai nella vita, affatto alieno come sempre fui a ogni droga, ho sperimentato una simile lucidità – che ancora stasera mi pare che mio figlio mi abbia salvato in cambio dei gamberoni. Da allora (sono passati più di sette anni) ho un’idea precisa, terribile e affascinata della paranoia. Ma anche della tortura. In quei primi giorni doveva essere escluso che avessi qualunque percezione della realtà esterna, e tuttavia io fui aggredito da uomini bianchi che mi immobilizzarono e vollero sgozzarmi, e solo in extremis, con una sovrumana ribellione, riuscii a difendermi con un braccio (i miei arti e tutto il mio corpo erano immobili) e a deviare una pugnalata alla mia gola. Fu, credo, il mio modo di percepire la tracheostomia e di battermi contro di essa. La lunga vicenda clinica che attraversai (fui fuori pericolo di vita solo a mesi di distanza e altri interventi) fu per me, per tutto quel primo periodo, una orribile esperienza di tortura: ed era una cura mirabile per dedizione e per bravura di tante persone.

    In questo mio modo, provo a stare nella pelle nuda di un torturato. Di uno che non delira, che ha ragione di aspettare in ogni istante del giorno e della notte un persecutore spietato e arbitrario. Di un corpo in totale balia d’altri, che giocano col suo dolore e la sua mortificazione, che lo spingono fino alla soglia della morte per negargliela e tornarne indietro, così da non rinunciare al proprio gioco. Il gioco degli aguzzini si addestra nel rapporto che gli umani, a volte anche i bambini, instaurano con gli animali catturati e tormentati. Non riesco a credere che la tortura sia un mezzo, magari penoso e angoscioso, per un fine superiore, per avere notizie, per salvare vite minacciate. Io credo che la tortura sia il compiacimento che prende la mano di chi ha in proprio potere pieno un corpo altrui, un altro ridotto a nudo corpo. E’ come quando si avverte a non lasciare che il proprio animale da preda prenda gusto al sangue, perché non si riuscirà più a farlo tornare indietro. Il torturatore che abbia infierito, da solo o più probabilmente in gruppo, sul proprio ostaggio, non potrà più accettare che esso torni alla vita. Non potrà sopportare che cammini nel mondo qualcuno che conosca un simile segreto di lui. E’ per questo che in certi stupri di banda le torture più efferate prendono il sopravvento sulla stessa bruta soddisfazione sessuale e si concludono con l’assassinio della vittima. D’altra parte nella tortura il fantasma della sessualità entra sempre violentemente.

    E ora torniamo a Guantánamo.

    Lo Human Rights Report 2012 del Dipartimento di Stato Usa sull’Italia –pubblicato lo scorso 19 aprile – è un documento molto interessante. E’ ampio e dettagliato. Limitiamoci qui all’iniziale indice ragionato.

    “I problemi maggiori riguardo ai diritti umani comprendono la costante incarcerazione dei detenuti in attesa di giudizio con i criminali condannati, le condizioni di vita al di sotto della soglia accettabile in carceri sovraffollate e centri di detenzione per immigranti privi di documenti, e il pregiudizio generale che diventa in alcune situazioni locali maltrattamento dei Rom, esasperando la loro esclusione sociale e riducendo il loro accesso all’educazione, alle cure sanitarie, all’occupazione e ad altri servizi sociali.
    Altri problemi per i diritti umani comprendono un impiego eccessivo e abusivo della forza da parte della polizia in alcuni episodi, un sistema giudiziario inefficiente che non offre sempre una giustizia rapida, la corruzione governativa, la violenza e le molestie contro le donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, e il vandalismo antisemita. Ci sono casi di traffico per lo sfruttamento sessuale e del lavoro. Gli osservatori hanno riferito anche di casi di violenza contro persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (Lgbt) e di discriminazione della forza lavoro fondati sull’orientamento sessuale. Il lavoro minorile e lo sfruttamento di lavoratori irregolari costituiscono anch’essi un problema, specialmente nel sud”.

    Nel Rapporto si sottolinea altresì l’assenza nel codice italiano del reato di tortura “e di altri trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti”.

    Si legge tutto ciò con attenzione e apprezzamento. Imputati in attesa di giudizio trattati come i condannati, condizioni carcerarie indegne, lentezza dei processi, assenza del reato di tortura… D’un tratto però la memoria di chi legge inciampa in quel nome: Guantánamo. Dal pulpito di Guantánamo. Ecco un esempio dello scotto che gli Stati Uniti pagano alla supposta convenienza di quel carcere extraterritoriale ed extralegale. Dal punto di vista dell’Italia, è poco più di un paragone che toglie credibilità alla fonte americana, e reciprocamente offre un alibi alle malefatte della giustizia italiana. Ma proviamo a immaginare la portata del paragone in Yemen, o in Afghanistan, o in Pakistan (quanto alla Cina, pubblica da 15 anni per ritorsione un suo “Human Rights Record of the United States”, affare di propaganda ufficiale: il cui pezzo forte sono naturalmente Guantánamo Bay e le strutture di detenzione della Cia). Guardata dai luoghi del mondo in cui cova il terrorismo islamista, Guantánamo costa lo scandalo dei cuori, già più di una battaglia perduta.

    Ferraresi Il fronte liberal intravede il bluff dietro l'infatuazione civile di Obama