Tenetevi da conto Monti, che sa scusarsi e fa quel che può

Giuliano Ferrara

Traduciamo e pubblichiamo l’ottima inchiesta del Wall Street Journal sul governo Monti. La frase sullo spread a 1200 “se fosse rimasto in carica il precedente governo”, tanto infelice e anche surreale che il presidente del Consiglio se ne è scusato personalmente con l’ex premier Berlusconi, il “venerato predecessore”, non è in queste righe. Esaurita la legittima e rumorosa protesta di Brunetta, Santanchè, Alfano, Cicchitto, Napoli ed altri, con contorno di voti simbolici di sfiducia alla Camera, si dovrà riprendere a ragionare sulla realtà, non proprio una specialità dei partiti in questo momento.

Leggi L'intervista di Mario Monti al Wall Street Journal

     

    Traduciamo e pubblichiamo l’ottima inchiesta del Wall Street Journal sul governo Monti. La frase sullo spread a 1200 “se fosse rimasto in carica il precedente governo”, tanto infelice e anche surreale che il presidente del Consiglio se ne è scusato personalmente con l’ex premier Berlusconi, il “venerato predecessore”, non è in queste righe. Esaurita la legittima e rumorosa protesta di Brunetta, Santanchè, Alfano, Cicchitto, Napoli ed altri, con contorno di voti simbolici di sfiducia alla Camera, si dovrà riprendere a ragionare sulla realtà, non proprio una specialità dei partiti in questo momento.

    L’inchiesta di Alessandra Galloni e Markus Walker fotografa in modo assai limpido quel che sta succedendo alla luce di quanto è accaduto nell’ultimo anno. Monti ha alzato il tono della sua voce, e della nostra, con la Merkel. Non grida, ché è inutile e puerile. Ma cerca di impostare una via d’uscita dalla crisi, dai rischi imminenti, da uno stato di sovrana confusione dell’area euro, debitori e creditori, per così dire. Se prendiamo il saggio di Antonio Pilati pubblicato qui ieri, bisogna dire che a una certa aria di riscossa nazionale non sono estranee le mosse di Monti per il riequilibrio degli spread e per politiche monetarie decisamente espansive (Consiglio europeo del 29 giugno e seguenti), perseguite via Banca centrale di Francoforte e con il suo attivo contributo per quanto ancora controverso (discorso di Mario Draghi del 2 agosto).

    Pilati in realtà sostiene che c’è un disegno egemonico tedesco (con il sostegno dei francesi nonostante Hollande), che questo disegno ha portato a una mutazione genetica dalle ormai solide radici dell’europeismo, che non è più cooperazione alla pari ma indebolimento programmato dei deboli o debitori con misure di rigore fiscale e finanziario che non risolvono ma aggravano i problemi delle nazioni che portano la “schuld”, debito e colpa, e rafforzano e arricchiscono i forti avvantaggiati dal finanziamento dello sviluppo a tasso negativo (la parte succosa dello spread, visto dalla parte dei bund). Sabato scorso Franco Debenedetti aveva motivato una sua visione, che non punta sul mutamento genetico, e invece mette a fuoco il vizio originario di un’Europa di impianto moralistico e burocratico, concepita più come la caserma dell’austerità che come un grande mercato di libero scambio capace di dotarsi degli strumenti monetari e finanziari utili a far funzionare una vera economia dello sviluppo fondata sulle virtù del settore privato e di un mercato regolato.

    Sono sguardi diversi, entrambi severi e critici sulla realtà della crisi, con giudizi anche discutibili ma lineari e bene argomentati. Il succo è che non è per “distrazione” che certe vocazioni cominciano a nutrirsi di politiche non cooperative, e che c’è qualcosa di tragicamente strutturale, e di radicalmente svantaggioso per noi e per le libertà economiche e politiche dei popoli europei, nel modo in cui la moneta unica è stata impostata, varata e governata fino ad oggi (in particolare a partire dal caso della Grecia). I vantaggi strategici della Germania nel tenere sulla corda il sistema imperniato sull’euro sono talmente evidenti che non ci si può voltare dall’alra parte, fingendo di non vederli. A dirla tutta, e con onestà, Monti in questo quadro sarebbe il problema, non la soluzione. Il governo varato con il 18 Brumaio di Napolitano III, quando il vincitore delle elezioni si dimise e invece di votare si procedette alla formazione di un esecutivo tecnocratico, subisce più che curare uno stallo che conviene a una visione appunto egemonica, tedesca e in subordine francese, della zona euro e dell’Europa tutta. Di qui la necessità, forte nel ragionamento di Pilati, di impostare una riscossa nazionale fondata su un controdisegno, un contropiano che parte inevitabilmente dalla chiusura del ciclo di Monti e dei suoi compagni d’avventura.

    I fatti raccolti e sistemati con cura dal Wall Street Journal dicono però altro. Dicono che il parlar duro di Monti ha un senso, si inserisce in una politica di parità tra partner che è arrivata alla prospettazione, inaudita come stile e come sostanza nell’Europa che conosciamo, di un veto insuperabile al Consiglio europeo. Monti non subisce, dice il giornale di Dow-Jones, e gli americani per esempio sono con lui strategicamente, e sembra realistico pensare che un trattamento sprezzante della nostra sovranità, vista nel suo grado di integrazione nell’Unione europea e dell’area euro, è ormai fuori della portata anche delle ambizioni della Cancelleria di Berlino (la sovranità di cui parliamo è diversa dalla caricatura ideologica fattane da molti cacciatori di memorandum oggi, appena ieri elogiatori della lettera agostana 2011 della Bce con cui si imponeva non a Monti, ma a Berlusconi in persona, di fare i compiti a casa).

    La mia opinione è che gli analisti del Foglio preoccupati dello stallo continuato e aggravato imposto dal sistema tedesco a tutti noi europei, e agli italiani in particolare, e molti altri osservatori che la pensano così, hanno molte ragioni dalla loro parte. Ma, a parte le volgarizzazioni propagandistiche dei settori politici che intendono lucrare un poco di credibilità perduta dai toni forti che usano, anche chi vede in Monti un problema invece che una soluzione non ha in mano alcunché di alternativo. Non si delinea una coalizione possibile, capace di governare l’Italia nel segno di una riscossa nazionale. Bisogna lavorarci, bisogna incalzare partiti e forze sociali e intellettuali perché ci si arrivi, a questo orizzonte, ma per adesso la linea dell’alba (si spera non “dorata”, come al Pireo) non si vede. Ora i riformatori della legge elettorale sono andati in vacanza fino alla fine del mese. La sinistra è smarrita e tentata da una logica aggressiva di strappo. Lo stesso la destra di impronta berlusconiana. Monti, con l’appoggio responsabile di Napolitano, sta tentando la sua prova più difficile, invertire la rotta del rigore mortifero senza sbracare né di fronte ai tedeschi né di fronte agli italiani. Teniamolo da conto.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.