Sopravvivere al New Yorker

Mariarosa Mancuso

Colloquio di lavoro al New Yorker, anno 1957. “Signorina, sa battere a macchina?”, chiede l'intervistatore E. B. White. Non un cacciatore di teste, neppure il capo del personale: era un famoso scrittore di libri per bambini come “La tela di Carlotta” o “Stuart Little”, nonché coautore del popolarissimo manuale “Elements of Style” (strumento di lavoro sempre a portata di mano nelle redazioni anglosassoni, per quanto bizzarra l'abitudine possa sembrare in una redazione italiana). “Non so battere a macchina”, risponde la ragazza, laureata all'Università del Minnesota e in cerca di primo impiego.

    Colloquio di lavoro al New Yorker, anno 1957. “Signorina, sa battere a macchina?”, chiede l’intervistatore E. B. White. Non un cacciatore di teste, neppure il capo del personale: era un famoso scrittore di libri per bambini come “La tela di Carlotta” o “Stuart Little”, nonché coautore del popolarissimo manuale “Elements of Style” (strumento di lavoro sempre a portata di mano nelle redazioni anglosassoni, per quanto bizzarra l’abitudine possa sembrare in una redazione italiana). “Non so battere a macchina”, risponde la ragazza, laureata all’Università del Minnesota e in cerca di primo impiego. Timidamente, a uno che era più impacciato di lei nonostante la posizione di potere, cercò di spiegare: “Le donne che sanno battere a macchina finiscono nella stanza delle dattilografe”.

    Dovessimo girare un “Mad Men” trasportato nel mondo dell’editoria, la battuta tornerebbe utile. In una puntata della serie di Matthew Weiner ambientata a Madison Avenue una macchina per scrivere veniva infatti reclamizzata con lo slogan: “Così semplice che anche una donna la può usare” (i maschi neanche ci provavano, prima del computer, a diteggiare sulla tastiera, tranne quelli che firmavano articoli o romanzi). Non si tratta però della fantasia di uno sceneggiatore che caratterizza con poche e precise parole il mercato del lavoro femminile di mezzo secolo fa. E’ vita vissuta da una ragazza del Midwest che si chiamava Janet Groth, figlia di un alcolizzato e sbarcata speranzosamente a New York.
    Fu assunta, le fu richiesto comunque un “ladylike clothing and behaviour” (con certe signorine non si sa mai, a una bizzarria potrebbe seguirne un’altra), per ventun anni rimase seduta dietro una scrivania vicino all’ascensore del New Yorker. Diciottesimo piano, dove c’erano gli uffici di una quarantina di scrittori e sei illustratori. Non aveva moltissimo da fare – la rivista è ancora nota per i suoi tempi di lavoro non frenetici, preferendo i pezzi scritti bene alla tempestività delle notizie. Lei mise a frutto i tempi morti tra un’incombenza e l’altra, studiando per un PhD. Lasciato il New Yorker, cominciò la carriera accademica e scrisse quattro libri su Edmund Wilson (il critico che negli anni Venti aveva lavorato a Vanity Fair, negli anni Trenta aveva sposato Mary McCarthy, litigava per lettera con Vladimir Nabokov – opinioni divergenti sulla Rivoluzione d’ottobre, le traduzioni di Puskin, “Lolita” – aveva stroncato Lovecraft perché “commerciale” e liquidato “Il Signore degli Anelli” di Tolkien come “juvenile trash”).

    Nella stanza delle dattilografe Janet Groth entrò soltanto per sbrigare qualche commissione. Oltre a prendere nota dei messaggi, introdurre i visitatori e dare una mano agli scrittori, notoriamente poco versati nelle faccende pratiche, andava spesso a pranzo. Molte pagine del suo memoir “The Receptionist – An Education at The New Yorker” (esce da Algonquin) sembrano la controparte intellettuale delle “Ladies who Lunch” a cui Vanity Fair ha dedicato uno splendido articolo nel numero uscito lo scorso febbraio: foto, ristoranti frequentati, scelta dei tavoli con vista perché non sfuggisse neppure un pettegolezzo, interviste alle signore che immancabilmente negano di far parte della categoria, origine della fortunatissima etichetta, e commento della canzone di Stephen Sondheim, lo stesso di “Sweeney Todd”, che nel musical “Company” la rese popolare.
    Quando non pranzava fuori, Janet Groth riceveva proposte di matrimonio dal poeta John Berryman, si innamorava di traditori che la portavano a vedere un appartamento, facendole sognare il matrimonio, e poi crudelmente rivelavano che era destinato a un’altra fidanzata. Non andò meglio con l’amico Fritz – “quite continental”, come cantava Marilyn Monroe in “Gli uomini preferiscono le bionde” – che spiegò di non poterla sposare perché era un poeta (lei lo aveva seguito in Germania, si era intrufolata in famiglia, e non era una ragazza così saggia da preferire i diamanti alla fede nuziale).

    Posò anche per una copertina, ritratta come cassiera in un cinema con lo chignon biondo che ancora sfoggia nelle fotografie recenti. Ora finalmente un marito l’ha trovato, fuori da quel New Yorker che fece da sfondo a molte storie d’amore e di professione meno sfortunate, alla luce del sole o clandestine (qualcuna fu il trampolino per brillanti carriere): il suo padrone di casa, che da tempo discretamente la corteggiava. Lasciò l’incarico da receptionist solo per una breve promozione che la condusse al settore artistico, dove tra gli altri lavorava Charles Addams famoso per la “Famiglia Addams”, che prima di diventare la serie di telefilm che conosciamo viveva la sua funeraria esistenza su carta (e pur essendo già Mr. Addams famoso per la “Famiglia Addams” eseguiva disegni su commissione: a lui toccavano le battute, anche scritte da altri, che prevedevano edifici gotici sullo sfondo). Miss Groth aveva il compito di esaminare le vignette proposte, ma le piangeva il cuore ogni volta che doveva respingerne una, pensando ai poveretti che nella busta avevano riposto tutte le loro speranze, di gloria e di denaro.
    Janet Groth racconta tutto. Anche quel che non le è capitato.

    Neanche una promozione in vent’anni, e soprattutto nessun passo di avvicinamento a una carriera da scrittrice (anche questa, oltre alla sfortuna nei fidanzamenti, fu materia lungamente dibattuta con il suo psicoanalista, dopo un provvidenziale e riflessivo viaggio in Grecia). All’università aveva scritto un racconto, battuto a macchina in maniera non professionale (l’aveva precisato a E. B. White, sempre per evitare la stanza delle dattilografe). Aveva partecipato a un concorso letterario indetto dalla rivista Mademoiselle: la vincitrice risultò essere Sylvia Plath. Basterebbe per ritirarsi in buon ordine. Un amico lettore le restituì un manoscritto accompagnandolo con un commento spietato: “Davvero pensi che qualcuno abbia voglia di leggere pagine così poco interessanti?” (l’abbozzo finì nel cestino della carta straccia). Le mancava, evidentemente, la fissazione che convince ogni scrittore, anche dilettante e scarso di talento, a credere che il mondo complotti contro il suo capolavoro. Non bastasse, era colta da attacchi di panico e da tremende emicranie le rare volte che le chiedevano di leggere qualcosa in pubblico: si chiudeva nel bagno e non ne usciva fino allo scampato pericolo, quando la sala era deserta.

    Chi entrava al New Yorker anche con il più umile dei compiti prima o poi risaliva i gradini della catena alimentare (in “Mad Men”, la segretaria Peggy Olson riesce a diventare copywriter, salvo poi ritrovarsi tra i piedi la giovane moglie di Don Draper, che dal locale delle dattilografe sceglie la via più breve). Di solito c’era la promozione a “fact checker” (altro mestiere sconosciuto al giornalismo italiano). Poi a reporter nella sezione Talk of the Town. Con la speranza di conquistare il premio più ambito: la firma sotto i lunghi articoli che hanno fatto la fortuna del settimanale. Janet Groth rimase ferma ai blocchi di partenza. Spiegando a Salinger che negli uffici non esisteva un distributore di Coca-Cola, pilotando Woody Allen al piano dove era atteso (sbagliava sempre), indicando a Jean Seberg dove trovare il bagno. Cercava di non fare incontrare Penelope Gilliatt e Pauline Kael, che all’epoca si spartivano l’incarico di critico cinematografico per volontà del direttore William Shawn: “Despota dai modi gentili”, nelle diplomatiche parole di chi lo ha conosciuto, che governò la rivista dal 1952 al 1987. Una lavorava da settembre a marzo, l’altra nei mesi restanti, e naturalmente si detestavano. Erano due piccolette con i capelli rossi – racconta Janet Groth – ma la somiglianza finiva lì: la britannica Miss Gilliatt, già critico titolare per l’Observer, girava avvolta in una nuvola di profumo, l’altra andava vestita da operaia californiana. I quindici anni di differenza a sfavore di Kael non facilitavano i rapporti. Janet Groth registra anche qualche conflitto d’interesse, quando Penelope Gilliatt viveva con Mike Nichols, e Pauline lavorava come consulente per Warren Beatty. Kael ebbe l’incarico a pieno titolo nel 1979, dopo undici anni di coabitazione. Quando la rivale – già sulla via dell’alcolismo – pubblicò un profilo di Graham Greene troppo simile a un articolo uscito mesi prima su The Nation.

    Il giovane Truman Capote, assunto al New Yorker per sbrigare la corrispondenza, fece la carriera che conosciamo (e poi se la rovinò, spiattellando in “Preghiere esaudite” tutti i segreti che le “Ladies who Lunch” gli avevano confidato). Non fu però un impiegato modello: gran parte della posta, neppure aperta, l’aveva nascosta nelle intercapedini tra mobili e pareti. Se ne accorsero quando decisero di ridipingere i locali (l’unica volta, nel ventennio di Miss Groth, e forse anche dopo, scegliendo come tinta un grigio “che non impegna”). Non era da meno William Faulkner, quando si ritrovò dietro lo sportello di un ufficio postale. Buttava nella spazzatura lettere e pacchi in quantità, e rifiutava di vendere i francobolli: “Perché dovrei alzarmi ogni volta che un moccioso vuole un francobollo da pochi cents?”. Anni dopo, sbrigando la corrispondenza a lui indirizzata, apriva solo le buste che guardate controluce rivelavano un assegno.
    Tom Wolfe al New Yorker non lavorò mai. Nel 1963, scrisse pagine di fuoco sul supplemento culturale dell’Herald Tribune, paragonando il settimanale a un mausoleo: “Robaccia prodotta per indurre gli americani di provincia, soprattutto se femmine, a credersi intellettuali francesi”. Titolo: “Tiny Mummies”. Per risposta si beccò del “coglione incompetente” (possiamo sempre contare sulla più fine intellettualità per un bell’insulto da bassa portineria).

    Lo scazzo andò avanti fino al 1998, quando John Updike stroncò sul New Yorker “Un uomo vero”, dicendo che “era divertimento, non letteratura, neanche nella sua forma più bassa” (come se Updike non avesse mai scritto niente di divertente, sul maschio americano puttaniere e suburbano). Quando al massacro si unì Norman Mailer, lo scrittore in completo bianco li liquidò come “un mucchietto di vecchie ossa”.
    Nei turbinosi anni Settanta William Shawn decise di svecchiare il gruppo, facendo scrivere Terrence Malick e la figlia del regista John Mankiewicz, che teneva banco raccontando le star di Hollywood conosciute in famiglia. Janet andò a un concerto di Bob Dylan, criticandone la scarsa voce e uscendo con l’impressione che il menestrello aveva bisogno urgente di un bagno. Ebbe la sua prima relazione con un uomo di colore. Per la sua solita sfortuna, apparteneva alla Nation of Islam.

    “The Receptionist” è un’educazione sentimentale, un’educazione intellettuale, una miniera di pettegolezzi letterari, anche un catalogo di libri curiosi. Conoscevamo Dwight MacDonald per il suo libro sul midcult, prezioso perché – a sua insaputa – aveva descritto le ambizioni culturali di Concita De Gregorio, Michele Serra, Fabio Fazio. Dopo aver letto Janet Groth siamo a caccia delle sue parodie letterarie, un’antologia che va da Chaucer a Max Beerbohm. E delle sue critiche cinematografiche pubblicate su Esquire (Burt Lancaster una volta si presentò in redazione, per lamentarsi di una recensione non lusinghiera). Di Joseph Mitchell – compagno di pranzi ogni venerdì, prima che litigassero su “Ragtime” di Doctorow, appassionato di ristoranti dove il pesce non era spinato, e i menu di carne prevedevano trippa e cervella – abbiamo già letto “Il segreto di Joe Gould”. E caldamente lo consigliamo. Per l’intreccio di follie tra un barbone che sosteneva di lavorare a una “storia orale” di New York, registrando le conversazioni ascoltate ovunque la gente parlasse, e uno scrittore a libro paga del New Yorker che dal 1964 al 1996 andava in redazione tutti i giorni senza pubblicare una sola riga.
    Janet Groth scrive piuttosto bene, soprattutto quando non insiste sulle sue vicende sentimentali, o sulla carriera da femme fatale con sigaretta e bocchino avviata dopo che i maschi l’avevano delusa. Il personaggio della provinciale nella metropoli dopo un po’ viene a noia.

    Tanto più che la ragazza, in altri capitoli, si dimostra tutt’altro che sprovveduta: una sua piccola carriera al New Yorker l’avrebbe potuta fare. Bello il ritratto di Muriel Spark e della fedele Penelope, che vivevano in Toscana e una volta la invitarono a una gran festa, di cui ancora ricorda i biglietti di invito. Oppure i racconti delle brevi apparizioni in redazione di Dorothy Parker, che sentita la parola “biscuit” la accusò di “credersi Henry James”. Avrebbe potuto insistere, come facevano tutti gli altri: presentando i suoi lavori, provando e riprovando fino a farsi pubblicare qualcosina. E’ vero che non la promuovevano, ma è altrettanto vero che lei se ne stava quieta, sempre un passo indietro, osando tre proposte in vent’anni.

    Per consolarsi, viveva le vite degli altri. E infatti mette, tra i vantaggi dell’impiego al New Yorker, certi compiti collaterali come dog sitter, baby sitter, e perfino house sitter. Abitava nelle case degli scrittori in viaggio, ed è felice quando può descriverne la metratura, gli arredi, perfino gli asciugamani. Altro incarico: organizzare le feste di Natale per i ragazzini (quando i genitori – scrittori separati, o semplicemente pigri – non provvedevano alla bisogna). In sede di bilanci, mostra un’invidiabile serenità: “E’ vero che per colpa del New Yorker ho avuto bisogno di uno psicoanalista. Ma con lo stipendio che ricevevo dalla rivista mi sono pagata il migliore di Manhattan”.