Il rock spettrale di Jacko

Marina Valensise

A casa sua si sentiva solo Mozart e Rossini, Verdi e Bellini. Vaste casse di amplificatori svettavano nell'ingresso inondato di luce dell'attico ai Cloisters, il residence di Dorchester Avenue, sui bordi del lago Michigan dove Allan Bloom abitava, a Chicago. Altra musica il filosofo neoconservatore, discepolo di Leo Strauss e studioso di Platone e di Rousseau, di Kant e Nietzsche, non ne ascoltava. Eppure, sapeva tutto del rock, dell'hard rock, del punk e del neopunk, perché viveva a Hyde Park in mezzo ai suoi studenti dell'Università di Chicago.

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    A casa sua si sentiva solo Mozart e Rossini, Verdi e Bellini. Vaste casse di amplificatori svettavano nell'ingresso inondato di luce dell'attico ai Cloisters, il residence di Dorchester Avenue, sui bordi del lago Michigan dove Allan Bloom abitava, a Chicago. Altra musica il filosofo neoconservatore, discepolo di Leo Strauss e studioso di Platone e di Rousseau, di Kant e Nietzsche, non ne ascoltava. Eppure, sapeva tutto del rock, dell'hard rock, del punk e del neopunk, perché viveva a Hyde Park in mezzo ai suoi studenti dell'Università di Chicago. Ne conosceva i gusti, le passioni, le abitudini. Vedeva che vivevano col walkman incollato alle orecchie – allora non era ancora l'epoca dell'iPod o delle megacuffie collegate all'iPod. Sapeva che vivevano in stato di totale dipendenza dalla musica: musica a palla, 24 ore su 24, musica come sottofondo ai loro studi, come accompagnamento ai loro party, come colonna sonora delle loro esistenze, come stato psichedelico permanentemente attivo. Da studioso di Platone, Allan Bloom aveva imparato che la musica era l'espressione barbara dell'anima, la ragione sregolata che andava educata e addomesticata dalla civiltà, riportata a norma razionale sublimandone le passioni primitive e contorte, ammansendone le forze caotiche con la forma dell'arte, per farne un ideale più nobile e elevato dando pienezza all'esistenza dell'uomo e ai suoi doveri.

    Da attento conoscitore del mondo contemporaneo, però, aveva anche visto che il rock ormai trionfante sui campus americani aveva un solo e unico richiamo, il richiamo barbarico al desiderio sessuale; aveva capito che esaltava nei giovani le prime manifestazioni della sensualità non per svilupparle o sublimarle, come germogli da curare, ma come dato reale, come occasione immediata per soddisfare l'appetito degli istinti e glorificare una natura ribelle a ogni norma e convenzione. Per questo, aveva visto in Mick Jagger e in Michael Jackson gli ultimi aedi di una musica eccitante, fine a se stessa, tutta risolta nella soddisfazione sessuale, senza alcun rapporto col sublime, senza alcun legame con l'idea dell'amore, col senso del dialogo, con la conversazione tra pari, ma proiettata tutta nell'illusione di sensazioni comuni, immediate, orgiastiche, animali. Aveva letto, nel trionfo del rock l'abdicazione all'educazione liberale: un segno di decadenza, la rinuncia da parte dei genitori a coltivare i propri figli adolescenti, a educare esseri umani ancora incompleti, procrastinando la soddisfazione degli istinti in vista di un ideale superiore. Il rock, come la droga, corrispondeva per lui a uno stato di libera espressione, all'anarchismo, al pansessualismo, all'indebolimento dell'io che veniva spacciato come liberazione dell'inconscio. E Micheal Jackson, il ragazzino che aveva conquistato i cuori di adulti e bambini, studenti e professori, il beniamino del mondo al quale persino il presidente Ronald Reagan stringeva la mano estasiato, era il simbolo di tutto questo, il simbolo della rinuncia al progetto pedagogico dell'umanesimo liberale. Aveva ragione Allan Bloom? Aveva torto? Esagerava? Aveva davvero motivo di angustiarsi per quelle che molti pensano essere solo canzonette?
    Harvey Mansfield, lo studioso di Tocqueville e Machiavelli, che ne fu amico e collega è convinto di sì. “L'educazione liberale consiste nel vedere la convenzione come freno alla verità della natura, per evitare di comportarti come un animale. Ora il rock di Michael Jackson corrisponde invece a un'assenza di limiti e di proibizioni: permette di arrivare subito al sodo, senza badare alle convenzioni; è come la volgarità di linguaggio, che ti pone a un certo livello di ostilità nei confronti della normalità sociale, della vita adulta. Scompare così il conflitto tra convenzioni e natura, tra norme e istinti. Per questo, l'amore diventa banale, resta solo il sesso senza amore, e la letteratura muore, perché riguarda proprio il conflitto tra amore come istinto e amore come convenzione e la possibilità di superarlo. Non c'è più differenza; si fa subito sesso senza preoccuparsi di essere innamorati, senza capire cosa ci sia di grande e nobile o interessante nel congiungersi a un'altra persona.

    L'educazione liberale invece consiste proprio nella scoperta e nell'esplorazione di questo problema. Oggi è talmente facile vivere oltre i limiti, estendere il potere dell'istinto, solo che per essere davvero sciolti, bisogna essere legati. E invece, nessuno sa più cosa significhi essere vincolati. Per questo, si può stabilire un nesso tra il rock, la droga e l'estensione della volontà di potenza: l'idea fondamentale è la stessa, e cioè l'assenza dei limiti, il superamento delle convenzioni, per arrivare a un nirvana dove nulla ti costringe a fare alcunché, non c'è più alcun problema, non ci sono doveri. E' in questo senso che Bloom leggeva la radicale ostilità del rock all'educazione liberale. Aggiungo poi che il rock smentisce le leggi stesse della ‘manliness'. Michael Jackson sembrava un androgino, viveva in una sorta di ‘no man's land' tra i due sessi. Era la negazione dell'educazione liberale, che consiste invece nel vedere al di là del proprio sesso, e nel cercare di capire e al tempo stesso di superare le differenze”.
    Anche Ruggero Guarini è convinto che Allan Bloom avesse ragione sul piano sociopolitico e culturale, sebbene trascurasse un aspetto simbolico essenziale: “Con tutta la forza innegabile del suo talento Michael Jackson è il veicolo involontario e inconsapevole di una tendenza al mostruoso tipica della modernità”, dice al Foglio lo scrittore napoletano grande esperto di tradizioni popolari. “Certo, anche nel mondo antico c'erano i mostri, le chimere, i centauri, solo che Michael Jackson ha cercato di cancellare dal suo volto la differenza tra vecchio e bambino, dalla sua pelle la differenza tra bianco e nero, dal suo corpo la differenza tra maschio e femmina, e ha aggiunto con la sua arte la cancellazione delle differenze tra vivo e morto, tra meccanico e organico. Era uno showman dai movimenti robotici, che cancellava la differenza tra l'uomo e la macchina. Aveva un che di mortifero in questa sua abbagliante semplificazione della tendenza al mostruoso che corre in tutta la modernità”, dice Guarini. Anche Frank Sinatra, prima di Allan Bloom, aveva definito il rock “musica per teppisti”, ricorda Guarini. “E pure i precedenti miti del rock, come Jimi Hendrix morto di overdose, avevano qualcosa di mostruoso.

    La bellezza era già sfuggita all'arte popolare americana: l'estetica graziosa e dionisiaca, festosa e ironica del boogie boogie dei sette neri in Hellzapoppin' era scomparsa da anni, per lasciar spazio a qualcosa di tetro, sinistro, tossico, velenoso. Non per niente, Michael Jackson aveva qualcosa di spettrale: il suo corpo è stato il luogo in cui si è affermata a suo danno la disastrosa tendenza della modernità al mostruoso, con la stessa furia devastatrice delle differenze tipiche della cultura progressista, dimostrata dalla legislazione spagnola che abolisce ogni differenza tra padre e madre, tra fratello e sorella. Anche per questo Michael Jackson è un'icona simbolicamente fortissima e il fatto che non lo sapesse nemmeno, non ne fosse cosciente, lo rende ancora più straordinario. Era un povero ragazzo nero attraversato dalla stessa pulsione di morte che pervade la modernità”.
    L'inconscio diventa conscio, il represso diventa espresso. L'istinto viene esibito come norma. E qual è il risultato di questo viaggio nelle tenebre? Non il demone creativo, ma lo scintillìo dello spettacolo, il saltimbanco che s'agita sul palcoscenico come un robot, scriveva Bloom. Anche lo psicanalista Umberto Silva sembra d'accordo, ma solo in parte. Distingue tra i Rolling Stone col loro rock, trionfo nichilista della droga, e i Beatles in cui ritrova “la bellezza, il sentimento, l'armonia, il destino”. Però l'accanimento di Allan Bloom gli è sospetto: “Come il Ravelstein di Saul Bellow che ne era il ritratto, smentisce le ragioni stesse di quanto sostiene. E' vero che dosi massicce di rock possono fuorviare, ma la corruzione degli animi inizia a scuola, col lassismo terrificante da parte di genitori e professori, i quali, invece, se unissero le forze riuscirebbero a dimostrare che una poesia di John Keats vale quanto, anzi vanifica, una canzone di Mick Jagger. Ha ragione Allan Bloom, solo là dove c'è la bellezza si incontra la verità, e cioè qualcosa che ha a che fare con Dio, con un motivo per esistere”. Nell'arte democratica invece c'è spazio solo per il rozzo, l'orrido, l'immediato, il violento avvertiva Tocqueville. “Sì, ma non è la musica ad essere una droga in sé, bensì il modo di avvicinarsi ad essa: è la logica suicidaria che uccide il pensiero”, dice lo psicanalista Silva.
    Chi invece non è per niente d'accordo è Red Ronnie: “Michael Jackson è cultura. E' il primo che ha messo d'accordo bianchi e neri. La sua musica è una magia che ha toccato il cuore di milioni di persone, è assurdo farne un simbolo negativo”.

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